Gli italiani credono ancora al santo che fa i miracoli
Scrivo sotto lo choc di un risultato elettorale che non assicura la governabilità a questo Paese, ormai in declino e, per la tradizione cattolica che lo distingue, sempre alla ricerca del «santo che fa i miracoli», piuttosto che di un equilibrio costruito su un autentico e meditato consenso.
La situazione rammenta molto il 1922: Mussolini, presentatosi alla Camera forte dell’appoggio sovrano, schiaffeggiò il Parlamento, con la storica frase «avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli». Non siamo molto lontani dal tono di un comico che si è improvvisato politico, con il proposito di «mandare tutti a casa», costruendo sulle macerie un edificio del quale non si vedono né la struttura né le necessarie coperture finanziarie.
In questo contesto, deve farsi un nuovo Governo che comprenda anche un nuovo ministro della Cultura. E al riguardo vorrei esser chiaro: questa non è una materia secondaria, una specie di lusso intellettuale in un contesto sociale nel quale assumono la preminenza i problemi dell’occupazione e del potere di acquisto di salari e pensioni. Si tratta di un problema primario perché mai come oggi il Paese deve difendere la propria identità e cercare una interrelazione con le altre realtà culturali, specie se omogenee.
È dunque primario che il nuovo ministro della Cultura, quale che sia la durata del suo mandato, si prenda cura di quelle scadenze che giacciono irrisolte da molti anni e che non possono essere ulteriormente differite. È almeno dal 2008 che il Ministero è acefalo: Sandro Bondi e Lorenzo Ornaghi hanno brillato per l’assenza anche fisica dal Ministero di via del Collegio Romano, spesso neppure varcandone la soglia, non essendo in grado di capire i problemi che ivi si agitavano.
Elenchiamo i temi più urgenti.
L’art. 71, 4° co., del D.lgs. 42/04 (noto come Codice dei Beni Culturali) prevede che il ministro debba emanare, sentito il Consiglio nazionale dei Beni culturali, un testo contenente gli «indirizzi di carattere generale», vincolanti per i diversi Uffici esportazione. Al riguardo, la situazione che si presenta oggi è la seguente: esistono, se non vado errato, diciannove diversi Uffici esportazione, sparsi per il territorio nazionale ma (e qui l’incoerenza appare manifesta) privi di competenza territoriale.
Con la conseguenza che chi possieda un bene legato alla cultura lombarda si guarderà bene dal chiedere l’attestato di libera circolazione all’Ufficio esportazione di Milano, rivolgendosi altrove e privilegiando uffici del tutto estranei a quel contesto culturale.
Consegue da questo una totale diversità di valutazione, tra ufficio e ufficio, del binomio «patrimonio storico artistico italiano - danno a esso come conseguenza dell’esportazione del bene», che dovrebbe guidare l’ufficio nel rilasciare o negare l’attestato di libera circolazione. A distanza di nove anni dall’entrata in vigore del Codice, il ministro non ha adempiuto all’obbligo normativo di emanare direttive di carattere generale, al punto che trova tutt’ora applicazione, in materia, l’ormai remota circolare del 13 maggio 1974, emanata dal Ministero della Pubblica Istruzione, allora competente nella materia dei beni culturali: una circolare che ha quasi quarant’anni e che venne emanata in un contesto totalmente differente nelle nozioni stesse di cultura e di tutela.
A mio avviso, tenuto conto che i criteri generali si possono piegare e rendere flessibili ad arbitrio dei differenti uffici, per determinare una effettiva uniformità sarebbe molto meglio creare un Ufficio esportazione centralizzato: ormai le differenti localizzazioni dei beni hanno perso attualità, perché con il sistema dell’alta velocità, Roma è raggiungibile in poche ore da qualsiasi territorio italiano. Questo eviterebbe l’attuale discrasia che consente l’esportazione di capolavori e la conservazione in Italia di inutile paccottiglia: potremmo documentare questa affermazione con carte alla mano, non con mere parole!
Ancora: è ormai intollerabile che le sorti economiche di un bene culturale siano legate ai capricci dei vari enti esponenziali che «tutelano» questo o quell’artista, questo o quell’altro momento storico (in realtà, sono meri centri di potere, dominati da despoti volubili e capricciosi). Tali enti esponenziali non rispondono in nessuna sede delle proprie opinioni, appunto perché si tratta di «opinioni», in se stesse soggettive e incoercibili.
Ho spesso dovuto scoraggiare iniziative giudiziarie volte a far accertare l’autografia di un’opera, magari su basi documentarie, negata da una fondazione o da un archivio, che conservava in ogni caso il diritto di esprimere le proprie «opinioni». Anche al riguardo dei rimedi vi sono ed erano stati indicati da una conferenza, da me coordinata, svoltasi presso l’Accademia Nazionale di San Luca nel 2004, i cui lavori furono interamente pubblicati dalla diffusa rivista «Gazzetta Ambiente». Sono passati nove anni e nessuno si è dato mai cura di intervenire.
Abbiamo fatto accenno a due problemi urgenti, non ulteriormente differibili, ma troppi ve ne sono, che la ristrettezza dello spazio non ci consente neppure di enunciare. Ogni volta che è cambiato ministro, abbiamo espresso voti e auguri; anche questa volta, ci ripetiamo, ma le speranze di un vero intervento sono assai deboli per non dire nulle, aggravate come sono dalla ingovernabilità del Paese!
Fabrizio Lemme, continuatore dello Studio fondato dal padre Antonio, è esperto di Diritto penale dell’economia, materia che di cui ha tenuto la cattedra nell’Università di Siena per 18 anni. Noto collezionista di dipinti del Barocco Romano, alcuni dei quali oggetto di importanti donazioni al Louvre, alla Galleria Nazionale d’Arte Antica ed al Museo del Barocco Romano in Ariccia, è altresì esperto di Diritto dei beni culturali, materia che insegna all’Università Jean Moulin di Lione. E’ autore di numerose monografie, articoli e saggi.