Senza testa
L’argomento affrontato nel mio articolo del numero scorso (cfr. n. 330, apr. ’13, p. 14) riguardava un fatto nuovo e incomprensibile: da qualche tempo a questa parte,l’amministrazione dei Beni culturali non decideva i ricorsi gerarchici di competenza della Direzione generale del Patrimonio storico artistico ed etnoantropologico, determinandone il rigetto per silenzio, con una indiscriminata limitazione dei diritti dei soggetti privati. Infatti, si rilevava, solo il ricorso gerarchico consente, con l’usuale controllo di legittimità, anche il controllo nel merito del provvedimento impugnato, controllo non attivabile nel ricorso avanti al Tar avverso il silenzio-rigetto, consentito per soli motivi di legittimità e quindi, con questo sistema, del tutto precluso.
Cercavo di individuare le ragioni di questo nuovo comportamento e le avevo intraviste in una pervicace volontà di sacrificio forzoso di quanti, possedendo beni culturali sottoposti a pesanti limitazioni (mancata concessione dell’attestato di libera circolazione, dichiarazione di interesse particolarmente importante, con le conseguenze che ne derivano), avessero chiesto una revisione fondata su circostanze estranee al controllo di legittimità: in particolare, sul piano storico artistico, il bene in discussione non rivestiva alcun interesse qualificato. Ma una lettera pervenutami al momento della consegna dell’articolo e in esso menzionata in un post scriptum mi induce a ritornare sull’argomento con un discorso più articolato.
Gli articoli 16/1 e 69/2 del D.lgs. 42/04 (il cosiddetto Codice dei Beni culturali) prevedono che, nel ricorso amministrativo avverso la dichiarazione di interesse storico artistico particolarmente importante e avverso il diniego di attestato di libera circolazione, il Ministero decida «sentito il competente organo consultivo». Tale organo era individuato nei Comitati tecnico-scientifici, previsti dal regolamento di organizzazione del Ministero (Dpr 173/04) e dal decreto del Presidente della Repubblica n. 2/07. Ora, nella politica di eliminazione degli organi superflui della pubblica amministrazione, volta all’encomiabile fine di contenere la spesa pubblica, la Ragioneria generale dello Stato ha chiesto insistentemente la soppressione dei Comitati tecnico-scientifici, nonostante la modestia del loro costo (10mila euro l’anno, ovverosia, in un bilancio di migliaia di miliardi, un’autentica goccia nel mare) e l’importanza della loro funzione. Conseguentemente, l’art. 12/20 del D.lgs. 6 luglio 2012 n. 95, convertito nella Legge 135/2012, ha soppresso tale organo, determinando un autentico vuoto normativo: chi avrebbe reso il parere necessario per decidere i ricorsi gerarchici? Ora, in proposito, si potevano proporre due soluzioni:
- attribuire tale competenza al Consiglio superiore per i Beni e le Attività culturali (fortunatamente sopravvissuto a questa furia distruttiva), integrato da esperti che avessero prestato la loro opera gratuitamente;
- ritenere superfluo il parere dell’organo consultivo, attribuendo la competenza decisionale, tout court, alla Direzione generale per il Psae.
E il Consiglio superiore aveva già approvato una norma di integrazione del suo regolamento di funzionamento, l’art. 1 bis, che prevedeva, in argomento, la propria sostituzione ai Comitati tecnico-scientifici. Ma la permanenza del dubbio sulla legittimità dell’una e/o dell’altra ipotesi aveva consigliato alla Direzione generale la consueta «soluzione all’italiana»: non rispondiamo ai ricorsi gerarchici, che vengono in conseguenza decisi dal cosiddetto «silenzio-rigetto» (Dpr 1199/71)! E a questo punto all’Avvocato dell’arte si pongono due riflessioni amare, che andiamo a esporre.
La prima: il silenzio-rigetto si forma egualmente, anche nel caso di impossibilità di rispondere, specie se questa non viene esplicitata con un provvedimento interlocutorio. Quindi, l’amministrazione, come sempre, scarica i suoi problemi di funzionamento sul privato che chiede giustizia. Se l’andamento delle cose rimane in questi termini, non dobbiamo poi lamentarci (come ho fatto, forse ingiustamente, nel numero di marzo) del successo del Movimento Cinque Stelle, che vuole rifondare lo Stato dalle radici e ottiene tanto consenso popolare!
La seconda: i decreti legge (tale è il provvedimento di soppressione dei Comitati tecnico-scientifici) vengono discussi dal Consiglio dei Ministri, del quale, ovviamente, fa parte il Ministro per i Beni e le Attività culturali. Il prof. Ornaghi ha per caso contestato tale soppressione, sottolineando l’infima modestia del costo risparmiato e l’insostituibilità dell’organo soppresso? Non abbiamo visto il relativo verbale ma dobbiamo ritenere di no, perché anche il Governo dei tecnici, o governo Monti, ha obbedito, nel darsi una struttura, alla solita logica di spartizione. E, in questa perversa, perdurante logica spartitoria, al Ministero per i Beni e le Attività culturali è stato assegnato un docente universitario che non aveva alcuna competenza specifica in materia di problemi culturali e quindi non era assolutamente in grado di affrontare i delicati problemi tecnici del suo dicastero.
Ecco, come abbiamo indicato nel titolo, le devastanti conseguenze di un’amministrazione acefala, ossia di un’amministrazione al vertice della quale è posto un personaggio certamente rispettabile e qualificato, ma totalmente privo di quella competenza specifica che si richiederebbe in un Governo tecnico.
I mali dell’Italia, dunque, sono destinati a non avere mai fine.