L'INNOVAZIONE SOCIALE PASSA DALLA CULTURA
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OPINIONI E CONVERSAZIONI
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Open Magazine
Partecipazione e creazione di significato, sinergie tra enti pubblici, fondazioni e operatori, rilancio dell'università e turismo intelligente. Ecco perché secondo Pier Luigi Sacco, professore della IULM e special adviser della Commissione Europea, "ripartire dalla cultura" è possibile (da Open Magazine)
Professore Ordinario di Economia della Cultura alla IULM, con delega rettorale all'innovazione e alle relazioni internazionali, ricercatore al metaLAB dell'Università di Harvard (dove è anche Visiting Scholar presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze) e Special Adviser del Commissario per l'istruzione e la cultura della Commissione Europea, Pier Luigi Sacco è uno dei massimi esperti internazionali in materia di progettazione e innovazione culturale. Nel 2011 ha pubblicato assieme a Christian Calandro il libro Italia Reloaded. Ripartire dalla cultura. In questa intervista ci spiega perché la seconda parte di quel titolo non sia un'utopia, oggi valga anche per l'Europa, ma dipenda da una ridefinizione radicale della concezione di cultura. A cominciare dal rapporto con i cittadini, che non sono più semplice “pubblico”.
Da anni lei sostiene l'idea che l'investimento sulla cultura debba svolgersi in un'ottica di innovazione sociale. Cosa si intende con questa formula?
Fare innovazione sociale significa programmare determinati modelli di interazione che producano nuove possibilità. Questo può avvenire attraverso tante modalità diverse, tra cui la cultura. In Italia oggi molta della più interessante innovazione sociale è mediata da forme di produzione culturale. Un esempio ormai quasi proverbiale è il Farm Cultural Park di Favara, in provincia di Agrigento, dove si fa leva sulla partecipazione creativa di fasce di popolazione che in passato, su quel territorio e secondo quei modelli di interazione, non erano mai state coinvolte. La cultura funziona molto bene perché ha a che fare con la produzione di significato, che si lega in modo quasi naturale con l'idea di innovazione sociale. Ed è particolarmente efficace quando non punta a forme tradizionali – quelle che richiedono da un lato un produttore e dall'altro il pubblico – ma a situazioni in cui i ruoli si mescolano e dove la produzione di significato avviene in modo collettivo.
In questo discorso rientra anche l'idea di Audience Development, un approccio oggi al centro della riflessione sulla produzione culturale a livello europeo?
In realtà io sono abbastanza critico nei confronti della nozione di Audience Development, soprattutto se essa significa partire dal presupposto che c'è una separazione precisa tra pubblico e produttori culturali. Oggi sta succedendo il contrario: le persone, in modo naturale, hanno iniziato a produrre contenuti culturali. Lo fanno tutto il tempo, pensiamo a ciò che avviene sui social media. Se l'Audience Development significa mettere in atto delle forme di persuasione per avvicinare le persone a un modello di partecipazione preconfezionato, che abbiamo già in mente, allora francamente non mi entusiasma. Non sarebbe altro che la migrazione in ambito culturale di un vecchio approccio di marketing: cercare di aumentare la customer base della cultura, come lo si fa con le patatine. Per questo più che di Audience Development preferisco parlare di Empowerment: utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per aumentare lo spettro delle competenze delle persone. Poi saranno loro a decidere come usare queste competenze. Qui entra in gioco uno dei problemi dell'Italia, un paese che presenta una forma di diffidenza storica verso la partecipazione culturale, spesso caricata di tutta una serie di implicazioni sociali, forme di auto-rappresentazione o rappresentazione collettiva. Nel momento in cui mettiamo semplicemente le persone in condizione di ampliare ed esplorare il proprio spazio culturale, queste rigidità e questi pregiudizi vanno a scomparire, perché ognuno segue il flusso dei suoi interessi. Più che soffermarci su nuove etichette, dobbiamo cercare di cambiare la concezione della partecipazione culturale.
Da questo punto di vista, come è emerso dal convegno Audience Development è Innovazione Sociale, lo scorso 21 giugno a Torino, non basta parlare di “sviluppo del pubblico” ma il development e l'innovazione devono riguardare tutti gli operatori culturali?
Quando si parla di modelli di sviluppo, tutti gli operatori del sistema sono chiamati a migliorare le proprie capacità e a farlo continuamente. Purtroppo qui emerge un'altra brutta caratteristica dell'Italia: la strana idea che abbiamo dell'apprendimento. Nel nostro paese molti ruoli sociali legati alla conoscenza sono anche investiti da qualche forma di autorità. Un'autorità che viene rimarcata continuamente. Pensa al professore universitario che per il suo ruolo deve presentarsi sempre in giacca e cravatta, mentre in Nord Europa ce ne sono che girano in maglione e ciabatte. Una conseguenza è il timore che l'apprendimento metta in discussione l'autorità: si pensa che chi ha raggiunto una determinata posizione non debba più imparare niente, perché sa già tutto. Accettare la necessità di aggiornarsi significherebbe minare la propria autorevolezza. Paradossalmente, è proprio il contrario: l'autorevolezza è minata dalla mancanza di aggiornamento. Se non ti rimetti in discussione continuamente, in un mondo come questo non vai da nessuna parte. Credo che tutti gli operatori del sistema culturale debbano entrare in un processo di apprendimento continuo: i singoli, le organizzazioni, le associazioni, le grandi istituzioni. Senza contrapposizioni. Anzi, è un processo che riesce meglio se è sviluppato in modo collaborativo, se uno impara dall'altro. In Italia non vedo ancora nulla del genere, mentre si assiste a una grande spinta dal basso in termini di innovazione sociale, aggiornamento ed esplorazione di nuovi modelli.
Quale può essere il ruolo delle fondazioni in questo circuito di innovazione e apprendimento?
Le fondazioni ex bancarie devono imparare a imparare dalle valutazioni sulle attività svolte. Per loro sarebbe un grandissimo punto di valore, proprio nell'ottica di una cultura dell'apprendimento. Imparare dalle valutazioni significa ragionare sui risultati raggiunti dalle proprie attività, sulle capacità di influire su determinati processi, sugli orientamenti strategici che hanno portato a prendere certi tipi di decisioni. Avendo il coraggio di mettersi in discussione e arrivando anche a cambiare questi orientamenti.
Sono trascorsi sei anni da Italia Reloaded. Ripartire con la cultura, il libro da lei pubblicato assieme a Christian Calandro (Il Mulino, 2011). Come giudica quanto è successo in questo periodo? L'Italia è ripartita?
Qualcosa è cambiato, non tantissimo. In alcuni settori si è provato ad attivare nuove energie e sono convinto che il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, se dovesse rispondere a una simile domanda, sottolineerebbe subito il lavoro svolto per cambiare la governance dei musei. Ma rimane il problema di fondo, quello che io e Christian Calandro denunciavamo nel libro: l'assenza di una riflessione su come la cultura possa cambiare non solo la qualità della vita, ma gli stessi modelli di funzionamento e di sviluppo della società e dell'economia italiana. Si continua a navigare a vista, senza una visione a lungo termine, senza che qualcuno ci dica cosa vuole diventare questo paese tra cinque o dieci anni. La cultura potrebbe fare molto per l'Italia, ma bisognerebbe smettere di ripetere fesserie – per esempio, quella del turismo come nuovo petrolio – lavorando invece a una rivoluzione del nostro rapporto con la produzione di significato e conoscenza.
In effetti, mentre all'estero iniziano a esserci città che iniziano a valutare anche criticamente alcuni effetti del turismo (Amsterdam, Barcellona), in Italia si sentono ancora molto spesso ragionamenti basati sulla semplice equazione “più cultura = più turismo”.
Il turismo ha un impatto importante dal punto di vista economico e l'Italia non può farne a meno, a maggior ragione in un momento storico come questo. Il problema è di quale turismo stiamo parlando. A preoccuparmi sono quei modelli in cui si mette in atto la classica logica dell'economia di rendita, dove le città dicono ai turisti: “Voi venite, fate quello che vi pare, noi vi facciamo pagare a peso d'oro qualunque sciocchezza, voi siete soddisfatti e noi pure”. Con il risultato di ritrovarsi città in condizioni critiche, dove persino ciò che in primo luogo dovrebbe attirare i turisti – il patrimonio storico-artistico – entra in crisi di sopravvivenza. Venezia e Firenze sono esempi eloquenti, per non parlare di Roma. A Barcellona è in corso un interessante fenomeno di ripensamento del rapporto tra i turisti e la città. Si interviene con esempi di nudging, piccole azioni “gentili” in cui non si costringe o vincola nessuno, ma si sfruttano alcune caratteristiche della psicologia umana per guidare i turisti verso forme di comportamento socialmente più appropriate. Un esempio banale: dipingere una piccola mosca al centro dei vasi nelle toilette per uomini, per ridurre i bagni sporchi. Un approccio intelligente può portare i turisti a vivere la città in un modo diverso. L'importante è non cedere al ricatto di considerare il turismo come una fonte di sopravvivenza tale da non potersi permettere di governare in alcun modo i flussi e i comportamenti. Parallelamente, bisogna tenere a mente la questione dell'autenticità, attorno a cui si sta concentrando molta della discussione internazionale sul turismo. Ogni città ha una sua identità, non è un parco a tema buono solo come sfondo per selfie. Se no, tanto vale affidarle ai grandi gestori privati di parchi di divertimenti.
Dal punto di vista sia teorico che pratico, che spinta potrebbe arrivare dalle università nella definizione di una nuova cultura in ottica di innovazione sociale?
L'università italiana soffre oggi di alcune contraddizioni evidenti, molte delle quali sono esposte lucidamente da Juan Carlos De Martin nel suo recente libro Università futura (Codice Edizioni, 2017). Negli ultimi anni le università si sono buttate sulla formazione per tecnici della cultura, varando innumerevoli corsi – alcuni anche di successo – senza stare troppo a pensare alla scarsa possibilità di sviluppo professionale. In Italia si fa fatica a impiegare i laureati in generale, figuriamoci quelli in ambito culturale. L'università dovrebbe fare molto di più, a cominciare dal seguire un approccio legato a modelli interconnessi: non basta fare formazione, occorre mettersi in gioco sul piano progettuale. Poi, a mio parere, bisognerebbe evitare di cadere nella trappola di una specializzazione prematura: durante il triennio iniziale è un errore cercare di formare gli studenti per rispondere subito a esigenze che arrivano dal mercato professionale. Lo scopo dei primi tre anni è un altro: aiutare le persone a formarsi una coscienza critica, sul modello dei liberal studies prevalenti nelle grandi università americane. Dopo aver permesso agli studenti di acquisire una solida consapevolezza critica, li si aiuterà a specializzarsi. Ma è chiaro che la trasformazione nell'approccio dell'università non può prescindere da un suo ricambio generazionale: è irrealistico pensare che le novità possano essere promosse da chi ha vissuto e beneficiato di modelli precedenti.
Spingere l'università a occuparsi di “aspetti progettuali”, significa attivare sinergie con gli altri operatori culturali, dalle istituzioni alle fondazioni alle associazioni?
Sì. Non si tratta di un passaggio auspicabile, ma indispensabile. Ancor più nella formazione in ambito culturale: se in un ateneo io ho professori che insegnano economia e sociologia del teatro o dell'arte contemporanea, senza interagire concretamente con le realtà che operano nel campo, che tipo di formazione posso dare agli studenti? Si rischia di non sapere nemmeno bene ciò di cui si sta parlando. E non basta utilizzare le esperienze personali dei singoli docenti, bisogna avere un approccio più strutturale. Solo così l'università potrà da un lato migliorare la qualità della formazione e dall'altro avere un impatto reale sulla visione culturale complessiva.
Nella sua esperienza professionale ha avuto modo di conoscere molte realtà europee e nordamericane. Esiste qualche modello o pratica virtuosa nella progettazione culturale che sarebbe assolutamente necessario adottare anche in Italia?
In Europa ci sono tanti esempi interessanti, ma faccio fatica a immaginare come si potrebbe trasferire un modello senza che sia supportato dalla mentalità e dagli orientamenti che l'hanno creato. In Italia subiamo un po' troppo il fascino della formuletta magica da copiare, sottovalutando l'importanza degli aspetti sostanziali che stanno dietro al funzionamento di certe pratiche. Ci sono infiniti modelli di successo, non solo in territori per certi versi “scontati” come la Scandinavia. Qualche giorno fa sono stato in Estonia, un paese incredibile, molto piccolo, partito da condizioni difficili, che oggi è leader nell'innovazione e nella formazione. Ma più che provare a copiarlo, bisognerebbe studiarlo: imparare dagli altri non significa solo cercare ispirazione ma soprattutto comprendere in maniera profonda le condizioni che rendono possibile un modello di successo. Prima di guardare all'estero, comunque, l'Italia deve risolvere due problemi storici. Primo, lo scarsissimo sforzo nel mettere in atto processi di cittadinanza attiva mediata dalla cultura: nessuno crede davvero che la qualità del nostro sviluppo possa dipendere dalla partecipazione culturale dal basso. Secondo, l'impreparazione dei nostri decisori pubblici. Troppo spesso hanno l'attenzione di un pesce rosso: in un minuto perdono interesse, si basano sul sentito dire, non si documentano e così non riescono a distinguere un progetto innovativo da un'idea buttata lì. Nei miei vent'anni di esperienza a contatto con le amministrazioni italiane, mi sono reso conto che il problema non sta solo nella limitazione delle risorse economiche, ma soprattutto nel modo in cui vengono utilizzate. Quando investiamo soldi nello sviluppo culturale, molti progetti partono con ottime possibilità e vengono poi ammazzati dall'impreparazione di chi dovrebbe governarli.
Il 2018 sarà l'Anno Europeo del Patrimonio Culturale. Si pecca di eccessivo ottimismo se si immagina una Europa Reloaded attraverso la cultura?
Su un tema del genere mi sento decisamente chiamato in causa, visto che sono special adviser della Commissione Europea proprio in vista dell'Anno Europeo del Patrimonio Culturale. Da un certo punto di vista, il varo di una simile iniziativa è già un successo, visto che era dal 2015 che l'Europa aveva smesso di programmare anni tematici. Si è deciso di farlo partendo dal patrimonio culturale, con un notevole consenso trasversale tra i paesi membri. L'obiettivo è evitare una mera celebrazione del passato, ragionando sulla cultura come straordinaria fonte di innovazione per il futuro. L'Anno Europeo del Patrimonio Culturale dovrebbe servire proprio a ridefinire l'agenda in base a criteri di innovazione sociale, nuove priorità, nuovi ambiti di lavoro. Vedremo come risponderanno i singoli paesi. Abbiamo molte idee, alcune decisamente forti, ed è bello constatare come all'Italia sia riconosciuto un ruolo di leadership.
(da Open Magazine, audience development e innovazione culturale)