Una nuova vision collaborativa per l'economia dei territori
“E’ tempo per chi opera nel settore di assumere un atteggiamento responsabile, rispondendo alla “non-strategia” della frammentazione – proliferazione di enti ed eventi, di iperproduzione normativa – con un approccio coordinato, sistemico e integrato, ponendo fine alle distorsioni che hanno fatto proliferare programmi e ingenerato sprechi, moltiplicato i vincoli burocratici e alimentato una visione egoistica legata alle risorse singolarmente destinate. Giovanna Barni, presidente CoopCulture, interviene con proposte nella riflessione sull’innovazione delle politiche culturali, stimolata in questo numero
L’esperienza maturata sul campo in oltre vent’anni di lavoro nel settore dei beni culturali mi induce oggi a sostenere con convinzione che la vera spinta al cambiamento in tema di politiche culturali non può che arrivare dalla condivisione di una nuova vision, basata sulla consapevolezza del peso che la cultura ha non solo per i fruitori diretti, ma per l’interesse generale delle comunità e dei territori, contribuendo, ad esempio, all’ inclusione sociale, allo sviluppo di una più ampia filiera produttiva e creativa, non solo culturale, all’incremento dell’occupazione.
Se realmente si ritengono condivisibili tali presupposti, è allora tempo per chi opera nel settore di assumere un atteggiamento responsabile, rispondendo alla “non-strategia” della frammentazione - proliferazione di enti e di programmi, iperproduzione normativa – con un coordinamento strategico tra i diversi soggetti in campo. Un approccio sistemico e integrato può valorizzare il contributo di ciascun attore ponendo fine alle distorsioni generate dalla logica della frammentazione che ha fatto proliferare programmi e ingenerato sprechi, moltiplicato i vincoli burocratici, alimentato una visione egoistica legata alle risorse singolarmente destinate, anziché ad investimenti infrastrutturali e strategici.
Dal mio punto di osservazione, certamente parziale ma che ritengo ottimale anche per la diffusione ed eterogeneità delle situazioni in cui sono stata coinvolta, laddove si è progettato insieme e gestito con ruoli sinergici verticali e orizzontali, gli effetti ed i benefici sono tutt’ora riscontrabili. Valga per tutti il caso di Campania Artecard il cui sistema, basato fin dalla creazione nel 2002 su un’architettura complessa pubblico-pubblico ma anche pubblico-privata, rimane tutt’oggi modello efficace e di successo. A fronte di ciò va evidenziato che alcune grandi opere culturali nate in quegli stessi anni o in quelli a seguire hanno registrato fallimenti, talvolta disastrosi, in quanto prive di quelle condizioni di sostenibilità che solo un’azione sinergica sul territorio ed il coinvolgimento degli altri componenti della società, imprese e/o associazioni, avrebbero potuto garantire.
Negli ultimi vent’anni, non tutte le novità introdotte nel settore hanno avuto il seguito necessario a determinare la disseminazione dei migliori esiti. E’ il caso della sperimentazione dei “distretti culturali” e dei “beni comuni” come forme inclusive di collaborazione, o ancora, quello della partecipazione dei privati specializzati alla valorizzazione che, introdotta dalla legge Ronchey, resta ancora “sospesa” tra le proroghe, pur avendo il vecchio modello mostrato alcuni limiti soprattutto nello scarso adattamento alla grande varietà del patrimonio culturale italiano (ancora oggi solo circa il 30 per cento dei siti presenta condizioni di sostenibilità).
La ridefinizione del ruolo del privato è urgente, a partire dalla riorganizzazione della committenza statale, anche al fine di capitalizzare e non disperdere, mediante nuove regole di collaborazione, l’innegabile capacità acquisita dal privato in questi anni nella creazione di valore aggiunto. Solo una nuova vision responsabile e inclusiva renderebbe il sistema davvero sostenibile, mettendo assieme soggetti portatori di interessi, competenze, capacità e funzioni assolutamente complementari, che potrebbero così portare un reale contributo alla crescita.
Ecco allora alcune idee che a mio avviso potrebbero facilitare un cambio di rotta nella direzione vista.
Anzitutto, come è già stato detto, occorre una nuova economia della cultura di tipo non ragionieristico, ovvero una economia non più basata semplicemente sul numero di visitatori e sugli introiti, sulla quantità di musei e di eventi, sull’entità dei contributi pubblici al singolo ente/settore. Il mero incremento di spazi ed eventi, di visitatori e introiti, la corsa alla riduzione dei costi, magari mediante gare al massimo ribasso, non hanno garantito una crescita reale in termini di beneficio collettivo, di qualità e di indotto. A ben guardare, la crescita solo numerica rischia di essere addirittura dannosa. I dati Mibact 2015 mostrano come i primi 15 siti in termini di visitatori - poco più del 5% dei 278 siti con ingresso a pagamento - hanno raccolto più del 70% dei visitatori paganti e quasi l’80% degli introiti lordi, mentre Colosseo, Pompei, Uffizi e Accademia a Firenze, da soli, ne raccolgono quasi il 50%. Ora, se diamo per assunto che questi quattro siti non possono avere una capienza infinita, è evidente l’urgenza di un cambio di prospettiva che guardi piuttosto ad un’offerta più ampia e accessibile, alla differenziazione dei percorsi di visita e dei modi di fruizione.
A ciò si aggiunga che il confronto tra forme diverse di gestione non andrebbe ridotto al solo profilo dei ricavi ma ad un più ampio set di indicatori. Basterebbe infatti far riferimento ad indicatori di settore, a partire dagli obiettivi di Europa Creativa 2014-2020, che misurino quindi la capacità di espandere e diversificare il pubblico, rinnovarne la partecipazione, coinvolgere la comunità scientifica e la comunità locale; e agli indicatori più ampi di impatto nel welfare, pure presenti nella strategia di Europa 2020, come la capacità di generare occupazione qualificata e nuove competenze, di creare network territoriali, di aumentare il valore aggiunto tangibile e intangibile in una filiera più complessa di attività. E’ su questi temi che si potrebbe aprire un proficuo confronto tra diverse esperienze di concessioni e gli appalti di mera fornitura di servizi, tra le gestioni in-house e quelle indirette. Certamente è su queste valutazioni che ci piacerebbe che fosse giudicata anche la nostra esperienza.
Altra linea fondamentale attiene all’urgenza di un modello territoriale intersettoriale e multiscala idoneo a determinare, nell’ambito di un’area, infrastrutture comuni per l’accessibilità e la mobilità, così come standard omogenei di informazione e accoglienza, e a migliorare le condizioni di sostenibilità gestionale, affinché anche i privati che investono nelle attività culturali e nei servizi siano supportati da una buona armatura territoriale.
In questa direzione lo sforzo dovrebbe essere integrare anziché polarizzare: nei territori più “forti” come le città d’arte - pur in presenza di gestioni separate - con cabine di regia che garantiscano almeno un coordinamento nella comunicazione e nell’accessibilità (agli uffici comuni peraltro fa già riferimento dall’art.112 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio). Nei territori nei quali invece non sono presenti grandi attrattori, ma siti di piccole e medie dimensioni (oltre l’80% dei siti del nostro patrimonio non supera la soglia dei 50.000 visitatori/anno) solo un sistema integrato di infrastrutture e servizi potrebbe garantire gli standard qualitativi minimi di fruizione.
Occorrerebbe infine un sistema stabile di relazioni (verticali ed orizzontali) tra i diversi attori che partecipano al ciclo che va dalla produzione di contenuti culturali, alla cura degli asset (musei, teatri, monumenti,…), alla alimentazione di servizi e attività per il pubblico, al sostegno alla domanda attraverso l’educazione, l’ascolto della cittadinanza e il supporto ai consumi culturali. In altre parole una governance collaborativa tra soggetti che necessariamente devono essere pubblici e privati, centrali e locali, interistituzionali, com’è nello spirito del nuovo Codice dei contratti pubblici (art. 15 e ss.) che non a caso individua il partenariato come modello principale di governo dei beni culturali.
Ci sono infatti funzioni che spettano agli enti locali, che per ruolo dovrebbero essere maggiormente in grado di cogliere le aspettative della cittadinanza e guidare il progetto di territorio, ci sono innovazioni utili che solo le istituzioni per la ricerca sono in grado di progettare, ma ci sono anche competenze facilmente reperibili nelle imprese private in quanto di fatto queste sono spesso più attente e veloci nell’adeguarsi a linguaggi e dinamiche di mercato, e così potremmo continuare.
In questa direzione il Mibact ha intrapreso un importante percorso, promuovendo forme di progettazione integrata per le Regioni del Sud Italia (come testimoniato dal Piano di Azione e Coesione 2007/2013, “Interventi per la valorizzazione delle aree di attrazione culturale” linea 2, “progettazione per la cultura”) cogliendo l’esigenza di far nascere dal basso una governance collaborativa su scala territoriale, al fine di superare frammentarietà e sovrapposizione degli attori pubblici e coinvolgere partner privati anche nella fase di progettazione.
Ma è proprio nel rapporto con i privati del settore che andrebbero compiuti altri passi, in avanti e non certo all’indietro, attingendo agli strumenti previsti dal nuovo codice dei contratti pubblici. Se infatti i nuovi direttori dei musei avranno maggiore autonomia nella progettazione strategica e nella programmazione, ai partner privati potranno richiedere: un apporto in termini di ideazione oltre che capacità operativa, l’aspirazione a crescere insieme al museo e a mettere in campo la propria capacità di impresa, anche assumendo il rischio relativo ad innovazioni e proposte di cui è stato fautore, l’apporto delle proprie relazioni commerciali con altri soggetti privati, indispensabili a completare una filiera più ampia che si allarghi ad altri settori (al turismo all’artigianato e alla enogastronomia).
L’operatore privato specializzato nella gestione e nella valorizzazione può insomma acquisire un ruolo centrale nel sistema cultura, in quanto in grado di colmare quello “spazio di mezzo” tra le istituzioni e il territorio, in termini di lettura dei bisogni da un lato e capacità di formulare risposte adeguate dall’altro, e lo è ancor più se di natura cooperativa in quanto in questo caso caratterizzato dalla capillarità e dal radicamento territoriale, dall’apertura alla comunità locale, dalla mission sociale e dalla “naturale” capacità di networking.
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Coopculture e' il principale operatore cooperativo nel comparto culturale per le dimensioni sociali (oltre 1.000 occupati di cui 900 soci), per la presenza in alcuni dei principali luoghi d'arte italiani, per l'esperienza acquisita in 25 anni in molte aree di intervento: dai servizi nei musei e nelle biblioteche alle innovative piattaforme partecipate di fruizione e valorizzazione territoriale.