Verso una nuova geografia delle professioni dell’arte. È finita l'epoca dei curatori?
La rivoluzione digitale, accompagnato dalle mutate condizioni finanziarie dell’ultimo decennio e dall’evoluzione dei pubblici, sta guidando una vera e propria ridefinizione dell’eco-sistema dell’arte, con trasformazioni profonde nel mondo delle istituzioni museali e del management culturale che generano sempre maggiore richiesta di nuove competenze. aprendo la via a una nuova geografia delle professioni. Quasi due anni fa, il saggio “Curationism”, di David Balzer denunciava la perdita di senso dell’abusato termine “curatore”, buono per ogni occasione, quindi, non più per nessuna. Le professioni che fino ad oggi hanno ricoperto un ruolo di cerniera tra la produzione delle opere e il loro pubblico, laddove l’intermediazione tra l’artista e il pubblico si è fatta plurale, immediata, a volte assente, si evolvono: il curatore sta assumento un ruolo sempre più orizzontale e non gerarchico rispetto a un pubblico che da destinatario si fa co-interprete
Secondo una recente ricerca del Financial Times, la metà delle professioni contemporanee è destinata a scomparire per effetto della digitalizzazione. Fa eccezione, in questo quadro, la figura dell’artista, per la quale la tecnologia sempre più spesso diviene un mezzo espressivo, ma la cui personale ispirazione creativa non può essere riprodotta né automatizzata. In senso più ampio, invece, come abbiamo più volte discusso su queste colonne, il mondo delle istituzioni museali e del management culturale è attraversato da trasformazioni profonde, che generano sempre maggiore richiesta di nuove competenze. Lo si deve al digitale, quanto ai processi di internazionalizzazione, de-materializzazione dei consumi, evoluzione del pubblico e alle mutate condizioni finanziarie dell’ultimo decennio.
Quella che abbiamo di fronte è insomma una vera e propria ridefinizione dell’ecosistema dell’arte, destinato a trovare nuovi equilibri nel tempo, proprio a causa della velocità delle evoluzioni in corso e future.
In esso, alcune funzioni si espandono, altre si contraggono, nuove emergono, ma tutto dovrà tendere a una dinamica armonica di funzionamento che consenta all’arte di svolgere la sua funzione, rinnovata, nelle comunità.
Abbiamo visto che oltre a un grande impatto sulla produzione creativa, le tecnologie stanno ridefinendo in modo sostanziale - come accade per tutti i settori produttivi, non solo dell’industria culturale - la distribuzione e la fruizione delle opere.
L’immediatezza offerta dai mezzi di produzione digitali consente a una band sconosciuta di pubblicare un brano su YouTube, a un ragazzo in grado di cogliere lo spirito del tempo di diventare una star su Internet, tanto quanto a un artista di promuovere direttamente le proprie opere e creazioni su canali social, da Facebook, a Instagram, a Flickr e a tutti gli altri in continua trasformazione. Canali, che, come tutto il web, non hanno un legame stretto con la dimensione territoriale, ma offrono uno spazio espressivo, espositivo, commerciale, potenzialmente globale. Tutto ciò si combina con la contrazione delle risorse economiche che interessa, salvo pochissime eccezioni, l’intero pianeta.
Queste due grandi dinamiche di trasformazione - da un lato il digitale con il suo impatto sulla produzione, distribuzione e fruizione dell’arte e dall’altro la crisi che ha minato profondamente anche la sostenibilità dei sistemi e delle istituzioni culturali pubbliche come dei luoghi di conservazione ed esposizione - aprono la via a una nuova geografia delle professioni. Se il mestiere di artista conserva la sua identità, ad essere investite dal cambiamento, proprio come in molti altri settori, sono soprattutto le figure tradizionali di intermediazione, ossia quelle professioni che fino ad oggi hanno ricoperto un ruolo di cerniera tra la produzione delle opere e il loro pubblico. Leggasi: i direttori delle istituzioni museali, i curatori delle stesse, delle mostre, delle esposizioni e degli eventi artistici.
Se per i primi abbiamo già visto che i profili professionali devono necessariamente arricchirsi con skills di economia, marketing, fundraising e media management, il nuovo rapporto tra artisti e pubblico (im)mediato dalle tecnologie e dal digitale sembra invadere soprattutto lo spazio di attività dei curatori, trovando nel web strumenti per travalicare i confini territoriali e intercettare pubblici trasversali agli spazi fisici.
Cosa sarà allora dei curatori? Quasi due anni fa, il saggio “Curationism”, di David Balzer denunciava la perdita di senso del termine “curatore” a causa dell’abuso nei contesti più vari, per cui questo termine è diventato un “catch-all”, prendi-tutto, buono per ogni occasione, quindi, non più buono per nessuna.
In molti contesti internazionali l’uso del termine sembra essere diventato addirittura ingombrante. Quasi inopportuno. Dopo anni in cui ha rivestito un’accezione positiva, esprimendo la capacità di scegliere e di proporre una chiave interpretativa forte al pubblico, proprio queste qualità del curatore tradizionale sembrano essere diventate obsolete.
Laddove l’intermediazione tra l’artista e il pubblico si è fatta plurale, immediata, a volte assente, il curatore non deve più proporre un’interpretazione propria, ma suggerire una delle possibili letture delle opere in modo discreto, orizzontale e non gerarchico rispetto a un pubblico che da destinatario si fa co-interprete.
Per questo in molti eventi artistici, la parola “curatore” è stata accantonata a favore di termini meno pretenziosi come il più neutro e generico "organizzatore”, che cancella i riferimenti di merito, o l’espressione “exhibition maker” che strizza un occhio al mercato, o ancora “designer”, che fa più riferimento alla disposizione spaziale che ai contenuti, sino addirittura a una asciuttissima preposizione come “by”, che comprime al massimo, se non annulla, l’idea di curatela.
Al di là della questione lessicale, tuttavia, pare un azzardo pensare alla scomparsa di questa figura. Più realisticamente, competenze e ruolo che ad essa afferiscono conosceranno una nuova vita, in cui a seconda del prodotto artistico da comunicare, dalle modalità con le quali è realizzato e dal pubblico cui si rivolge, si ibrideranno con altre professionalità: stanno già nascendo nuovi profili come il critico-curatore, l’artista-curatore, il gallerista-artista, il critico-artista.
Allo stesso tempo, la crisi delle istituzioni culturali pubbliche insieme alla contaminazione dei generi creativi determineranno una crescente attrazione dei “nuovi” curatori verso mondi confinanti (e dalle cronache di questi giorni vale sempre più anche il percorso inverso....) come quello dello show business e delle fiere d’arte, queste ultime a loro volta sempre meno appuntamenti a carattere esclusivamente commerciale e sempre più grandi eventi artistici.
Nemmeno l’arte e le sue professioni si sottraggono quindi al paradigma della società liquida. Anzi, essendo la forma più alta di autorappresentazione e di narrazione della società stessa, è toccata per prima dalle trasformazioni in atto, diventandone essa stessa un vettore.
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