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Un campus che sarebbe piaciuto ad Olivetti

  • Pubblicato il: 14/11/2013 - 08:58
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Stefano Luppi

Bologna. Isabella Seràgnoli, imprenditrice bolognese, in ottobre ha dato vita al suo sogno, il Mast-Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia (cfr. lo scorso numero, p. 6), sorta di cittadella polifunzionale (si parla di un investimento tra i 40 e i 50 milioni di euro), che riunisce welfare e museo aziendale, filantropia, storia dell’impresa e funzioni di ponte tra città e periferia riqualificata dal progetto. Ci sono assonanze con l’avventura di Adriano Olivetti: Seràgnoli non smentisce il paragone (al Mast ha appena organizzato un convegno sull’industriale di Ivrea) e risponde ad alcune domande in esclusiva per «Il Giornale dell’Arte».
Signora Seràgnoli, davvero ha pensato a Olivetti?
Lui ha lasciato un segno e ancora oggi è un riferimento per molti, uno dei primi convegni al Mast per questo è stato dedicato a lui in collaborazione con la Fondazione Olivetti e la Satwa film.
Perché ha deciso di mettere i profitti d’impresa nel Mast?
Le racconto la genesi del progetto, a partire dai primi anni del Duemila. Abbiamo acquistato un terreno a fianco della nostra azienda dove c’era una sede dell’Enel, nella prima periferia bolognese a pochi chilometri da ospedale e aeroporto. Pensavamo ai bisogni delle nostre collaboratrici immaginando di creare un asilo nido per i loro figli. Poi il progetto si è sviluppato e abbiamo pensato a forme di welfare approfondito con il nido da 80 posti, un centro wellness, un’accademia di mille mq per la formazione anche di personale esterno e un auditorium da 400 posti disegnato dallo specialista dell’acustica Higini Arau. Esternalizziamo tutte le attività e la nostra Fondazione non profit seguirà le attività, anche della mensa e della caffetteria che sarà aperta ogni giorno.
Il Mast ospita anche opere d’arte («Shine» di Anish Kapoor, «Collective movement Sphere» di Olafur Eliasson, «Sfera» di Arnaldo Pomodoro, «Coffee Table» di Donald Judd) mentre il simbolo è la grande scultura esterna «Old Grey Beam» di Mark di Suvero. Come e quando è nato invece il suo progetto architettonico da 25mila metri quadrati?
L’edificio, di frontiera, ha origine dal concorso del 2005 (presidente Francesco Dal Co) vinto dallo studio romano Labics degli architetti Francesco Isodori e Claudia Clementi che l’hanno costruito insieme a numerose altre professionalità. Parallelamente alla costruzione, infatti, alcuni comitati composti da professionisti e consulenti specializzati in varie discipline hanno affiancato la committenza.
Al Mast una parte fondamentale ce l’ha lo spazio espositivo di 2mila mq, che fino alla fine del 2013 espone nella mostra «I mondi dell’industria» una selezione di oltre mille opere della collezione di fotografia industriale del gruppo Seràgnoli.
Qui verranno realizzate due mostre l’anno, con materiali spero anche di altri archivi, aziende e collezioni, sempre sul tema del mondo produttivo di cui l’Emilia è una capitale: segue questa attività Urs Stahel, ex direttore del Fotomuseum di Winterthur (Zurigo). La collezione l’abbiamo iniziata alcuni anni fa attraverso il concorso «Gd for foto art» dedicato ai giovani fotografi di tutto il mondo. Nella commissione che sceglie le opere dei giovani all’inizio c’erano Gabriele Basilico, Pippo Ciorra, Roberta Valtorta e altri esperti. È impossibile citare tutti gli artisti presenti nella raccolta, ma ricordo tra quanto esposto le fotografie di Hine, Tuggener, Lessing, Abbott, Brandt, Guidi, Becher, Ruff, Ebner. Tempo un anno e mezzo e la collezione andrà in un nuovo edificio in costruzione a fianco del Mast con tutti i crismi necessari per la conservazione. Ci sarà anche una biblioteca specialistica aperta a tutti.
Lei come acquista le sue fotografie?
Mi faccio consigliare dagli esperti perché penso che la fotografia sia un mondo troppo tecnico, non è come acquistare un quadro che è senz’altro un’opera unica a cui è attribuibile un valore estetico ed economico.
In concomitanza con l’apertura del Mast si è svolta la prima edizione della biennale «Foto/Industria», curata da François Hébel (Les Rencontres de la photographie di Arles), in dieci luoghi del centro storico. Avete esposto opere di decine di noti fotografi tra cui Basilico, Cartier-Bresson, Doisneau, Erwitt. Che cosa farete dopo?
Continueremo con il mondo dell’immagine e del libro legati all’industria, per ora senza specializzazioni di settore, speriamo solo di tenere aperte maggiormente le mostre. Organizzeremo anche molti altri eventi collaterali.

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da Il Giornale dell'Arte numero 336, novembre 2013