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Marco Magnifico: il Fai non è polvere e salotti

  • Pubblicato il: 30/03/2012 - 09:58
Rubrica: 
FONDAZIONI CIVILI
Articolo a cura di: 
Giuseppe Salvaggiulo
Marco Magnifico

Marco Magnifico, vicepresidente esecutivo del Fondo per l’ambiente italiano (Fai), è una tipica espressione della borghesia milanese. Colto, elegante, sobrio, spiritoso con punte di narcisismo, arriva in ufficio in bicicletta e il venerdì pomeriggio si rifugia in campagna «perché in fondo Milano non è una città, è un ufficio». Grazie a un nonno collezionista, «a casa ho sempre vissuto in mezzo ai bei quadri: a 14 anni giravo per mercatini a comprare teiere cinesi dai rottamant di Varese». Obbligato a iscriversi alla Bocconi, resiste due anni. «Poi mi sono ribellato: mio padre era sconcertato, per fortuna ero sostenuto da mia madre. Sono passato a studiare storia dell’arte e dopo la laurea ho cominciato a lavorare per Sotheby’s». Responsabile quadri antichi, «ruolo che mi è stato molto utile perché ho capito la differenza tra tenere in mano un Mantegna e una crosta». Ma ancora una volta prevale lo spirito inquieto. «Non faceva per me: una volta eravamo andati da una signora per la valutazione di un quadro e mi ero lasciato sfuggire: signora, non venda. La casa era talmente straordinaria che mi piangeva il cuore all’idea di svuotarla. Il mio capo si era infuriato. La realtà è che inconsciamente ero già nel Fai». Dove approda nel 1986. «Ero amico dei figli della signora Crespi, che mi ha adocchiato. E ha scelto bene. Mio padre era contrarissimo: si era appena consolato con Sotheby’s... Ma come ti viene in mente, mi diceva, di andare a lavorare al giocattolino della Giulia Maria? Invece è stata la scelta più importante della mia vita. Eravamo in cinque, con un ragioniere che veniva due volte a settimana. Ora qui lavorano 160 persone, dieci solo nell’ufficio contabilità. Senza un euro di nero».

Quali sono le qualità del Fai?
Fantasia e pragmatismo, derivante dal fatto che tutti i giorni ci confrontiamo con i problemi della gestione.

Negli ultimi tempi è diventato un personaggio televisivo. Come si sente?
Quando vado da Augias sono serio, sono me stesso. A Striscia la notizia faccio il cretino. Ma parlare di beni culturali a Striscia, il cui pubblico non è il nostro target, è un grande risultato. Antonio Ricci è un uomo colto e civile, anche se ha inventato il velinismo, uno dei segnali della deriva culturale italiana. L’abbiamo invitato a un convegno, ci siamo piaciuti, così due anni fa mi ha detto: facciamo una cosa con Brumotti. Io non sapevo nemmeno chi fosse... comunque accetto, vado e penso di avere a che fare con una persona normale. Invece mi trovo davanti uno tutto tatuato, in mutande, in bicicletta. Tra me e me dico: Ricci è impazzito. Ma ormai ero lì e abbiamo fatto il primo filmato in tandem. Poi mi hanno spiegato che è campione di bike trial. Dopo trenta servizi in due anni, ho preso confidenza e vado anch’io in bicicletta, mi travesto, faccio cose strane. C’è stata un’escalation, forse persino eccessiva ma con riscontri straordinari. Non solo la gente mi ferma per strada, ma ci segnala beni da tutelare. Così il Fai riesce a imporsi come interlocutore nazionale.

Come mai il Fai ha un’immagine un po’ polverosa e salottiera?
È un problema: apparire una fondazione elitaria e chiusa in se stessa, cosa che non è assolutamente vera, anche se siamo tutti esponenti di una borghesia milanese di taglio illuminista. Dalla signora Crespi alla signora Borletti Buitoni, io e tutti i consiglieri tra cui Mario Monti, siamo figli di quella cultura che viene da San Carlo Borromeo e passa dall’Illuminismo lombardo. I milanesi hanno il complesso giansenista e manzoniano per cui chi ha avuto tanto deve dare tanto. Deve, non semplicemente vuole. I romani non sono così: ci sono i nobili, il popolo e i ministeriali. A Milano i borghesi. Il Fai non poteva che nascere a Milano, che non a caso non ha mai avuto un vero re. L’essere espressione di una cultura alto borghese ci dà un’immagine sbagliata, anche se il Fai è di tutti.

Anche se non tutti possono accedere alle cariche diret­tive.
I quattro soci fondatori scelsero i primi consiglieri. Oggi questi vengono cooptati e devono essere approvati anche da un comitato dei garanti, custodi del Sacro Graal: Gustavo Zagrebelsky, Giovanni Bazoli, Giulia Maria Mozzoni Crespi, un figlio della signora Crespi, Luca Pallavicini, Ezio Antonini. Tutto blindato.

Non ci sono mai state pulsioni democratiche?
Certo, un consigliere su venti ora viene proposto dalle delegazioni territoriali, i cui presidenti peraltro sono scelti dal consiglio stesso. Dunque, sempre tutto dall’alto.

E il rapporto con gli associati non ne risente?
Il Fai non esisterebbe senza le delegazioni territoriali. I nostri volontari non sono quelli che una volta l’anno vanno a pulire una spiaggia, senza nulla togliere... Lavorano tutto l’anno, hanno un ufficio, sono volontari-professionisti a tempo quasi pieno.

Invece la struttura centrale?
Il nostro lavoro principe è gestire oltre 40 proprietà, in gran parte donate da privati e qualcuna dello Stato. Tutte regolarmente aperte al pubblico con pagamento del biglietto, da una barberia Art Deco in un carrugio di Genova fino al castello di Masino. Quest’anno ne abbiamo inaugurate tre, come promesso. Il negozio Olivetti di piazza San Marco a Venezia, la villa dei Vescovi sui colli Euganei e il bosco di San Francesco ad Assisi.

Che cosa significa gestire queste proprietà?
Oggi dire sono del Fai ti classifica come una persona seria. La credibilità è un grande valore. Un conto è denunciare, un altro realizzare progetti. Molto più impegnativo. Noi diamo ogni mese uno stipendio a custodi, giardinieri... Queste proprietà ci vengono regalate proprio perché tante persone civili si accorgono che non sono in grado di gestirle ma non vogliono venderle al burino locale perché lì dentro c’è l’anima della loro famiglia. Venderle vuol dire privarsene, regalarle vuol dire regalarle a tutti, perché il Fai non può venderle. È un patrimonio congelato e devoluto alla fruizione pubblica.

Come sta cambiando il Fai?
La signora Crespi è una regina, è stata educata per esserlo e si comporta da tale; abita nel più bel palazzo di Milano, come tutte le regine. La Borletti Buitoni, pur provenendo da quel contesto, no. La Crespi non ha mai avuto un ufficio al Fai. È venuta solo una volta, quando è morto Renato Bazzoni, storico segretario generale, e ha detto: uh, ma che brutti uffici che avete. Questo spirito più imprenditoriale è il nuovo taglio che stiamo cercando di dare al Fai. E ci dicono che comincia a emergere. Oggi la nostra struttura operativa, mi sento di dirlo, è formidabile.

Che cosa pensa delle ipotesi di vendita-svendita del patrimonio pubblico?
La svendita non esiste. Anche se lo Stato vende, restano vincoli di vario tipo. Quindi se anche la Villa reale di Monza diventa mia, non posso farci appartamenti.

Proprio per la Villa Reale è molto contestato il bando di concessione ai privati.
Il cretinismo di alcuni restauri dello Stato, con gli appartamenti di Umberto e Margherita ridipinti da un imbianchino come un alloggio qualunque, quello dovrebbe suscitare scandalo. La Villa reale non è Venaria, ma un albergone che prima gli Asburgo e poi i Savoia usavano per belle feste in settembre. È del Piermarini, ma non c’è nulla di strepitoso. Dunque che dopo l’orario di chiusura si possa affittare per convegni e feste, nulla di male; anzi: è nata per quello.

Che cosa pensa dell’accordo con Della Valle sul Colosseo?
Ne penso bene, Della Valle sa fare bene i suoi conti, c’è una stupidità dilagante che venga messo in discussione. Detto questo, è penoso che lo Stato non trovi i soldi per il monumento più importante del mondo, venendo meno ai compiti dell’art. 9 della Costituzione.

Non c’è il rischio che l’uso commerciale deturpi i beni culturali?
Tutela prima di tutto, utilizzo commerciale per arrivare a un livello accettabile di perdita, perché la gestione non è mai un business. Noi arriviamo a pagare con i biglietti il 35% dei costi, lo Stato il 7. Con le attività commerciali aggiungiamo un altro 35.

Quanti sono i vostri iscritti e dove si concentrano? Stanno cambiando dal punto di vista sociale e anagrafico?
Sono 85.000 per lo più in Lombardia e Veneto, mentre il National Trust inglese, che è il nostro modello, ne ha 3,5 milioni perché gli inglesi hanno radicatissima l’idea che l’heritage è la loro identità. Abbiamo tante signore con il tailleur Chanel, ma si sbattono moltissimo. Quattro volte l’anno facciamo corsi di formazione. I giovani stanno crescendo enormemente. Il capo delegazione di Milano ha 35 anni. La struttura si sta aprendo, pur mantenendo il nucleo illuminista lombardo.

Che cosa pensa degli ultimi ministri dei Beni culturali?
Bondi è una persona con un’anima, un po’ infantile, da fanciullino pascoliano. Galan molto simpatico e appassionato, rischiava di funzionare. Ci siamo trovati bene con Veltroni e la Melandri, abbastanza con Rutelli. Ma anche la sinistra ha fatto disastri, perché nessuno ha avuto il coraggio di capire tre cose. Primo: siamo una zattera sulle cascate Vittoria. Il baratro è che entro tre anni il cuore della struttura del ministero andrà in pensione. Il ministero chiude e non si fanno concorsi da anni. Secondo: non bisognava tagliare fondi come hanno fatto sia Prodi che Berlusconi, il quale ha lasciato che Tremonti togliesse un miliardo di euro in tre anni e cancellasse anche le ispezioni, perché non garantisce i rimborsi spese. Questo crea problemi spaventosi. Noi mandiamo i capi delegazione a prendere gli ispettori alla stazione per fare i sopralluoghi altrimenti si blocca tutto. Terzo: il ministero è un nobile e gigantesco elefante, da adattare alle esigenze dei tempi.

Quali sono i mali dell’elefante?
Il ministero della Salute non gestisce gli ospedali, il ministero dell’Economia non gestisce le aziende, il ministero dei Beni culturali invece gestisce un patrimonio immenso. Ci sono i sindacati che sono un dramma, una spina nel fianco, insieme a una rigidità nella gestione per cui se si ammala il bigliettaio non puoi chiedere al custode di staccare i biglietti. I sindacati hanno tolto il buon senso, necessario in qualsiasi tipo di grande impresa.

Qual è il vostro rapporto con le Soprintendenze?
Le Soprintendenze, di cui siamo i primi difensori, talvolta sono piene di fior fior d’imbecilli, ignoranti, settari, marziani che esercitano la tutela in modo soggettivo - mi piace, non mi piace - e piantano grane di ogni tipo.

Come ha giudicato il rapporto tra Silvio Berlusconi e la cultura?
La cultura è sempre stata promossa dai principi: Medici, Gonzaga... Il principe popolano non esiste, Cola di Rienzo e Masaniello hanno combinato disastri. Berlusconi si è fatto da solo, non ha sedimentato valori culturali, non ha avuto il tempo di diventare principe. Il centrodestra ha avuto un terribile difetto: è stato gestito da un padrone che non aveva la più pallida idea di che cosa vuol dire la cultura per l’Italia. Non gliene posso fare nemmeno un torto: se i soldi li avesse fatti il nonno o il padre, forse...

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da Il Giornale dell'Architettura numero 101, gennaio 2012