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Mal d'Africa

  • Pubblicato il: 17/06/2017 - 16:16
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Patrizia Asproni

E’ in atto un movimento nel panorama della produzione artistica contemporanea, fortemente  promossoda figure  femminili e sconosciuto ai più,  che vede penetrare progressivamente l’arte del Continente Nero sulla scena occidentale che abbatte “i confini della segregazione culturale e degli stereotipi omologanti e diminutivi entro i quali l’arte africana è stata classificata fino ad oggi (..)”. Prende corpo una nuova narrazione dell’Africa. Ne parla Patrizia Asproni, Presidente della Fondazione Marino Marini.
 


"Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo” scriveva Plinio il Vecchio. La citazione torna utile a descrivere un movimento in corso, nel panorama contemporaneo, che vede penetrare progressivamente l’arte del Continente Nero sulla scena europea e, più in generale, occidentale. Nulla di sorprendente, con il pensiero alla globalizzazione; ma a osservarlo da più vicino, questo fenomeno sembra avere caratteristiche tutt’altro che univoche.
Le prove sono diverse e significative: se appare alta l’attenzione dei collezionisti privati e delle case d’asta verso le opere provenienti dall’Africa - con Sotheby’s, per esempio, che attiva proprio di questi tempi un dipartimento dedicato - il mondo espositivo e delle istituzioni culturali sembra ancora trovarsi in uno stato quasi confusionale, a metà del guado tra il rischio di assecondare gli stereotipi (o peggio: produrne di nuovi) e quello di determinare, per mancanza di visione, clamorosi “buchi”.
Così qualcuno potrebbe descrivere il caso dell'ultima Biennale di Venezia, durante la cui inaugurazione si è tenuto a poca distanza l’African Art in Venice Forum, che ha visto tematizzata la “questione africana” con riferimento alla sotto-rappresentazione dei Paesi del continente alla kermesse lagunare (7 padiglioni su 54).
Non è certo una svista, né tantomeno una falla del palinsesto, quanto piuttosto la testimonianza di un nodo irrisolto che, a ben vedere, la gran parte dell’Europa condivide. E che accende i riflettori sullo stato di (auto)coscienza dell’Occidente.
Sarebbero tanti gli stimoli a partire dai quali condurre una riflessione in proposito.
Nel suo mirabile saggio “I frutti puri impazziscono”, l’antropologo James Clifford descriveva la condizione di modernità etnografica come esito della disgregazione delle tradizioni culturali locali; eppure sosteneva la possibilità di una ricomposizione finale degli “oggetti culturali” in strutture dotate di nuovo senso.
Un destino possibile? Certo è che l’esperienza colonialista sembra aver lasciato da questa parte di mondo nitide tracce di quel complesso di superiorità che giocoforza l’ha accompagnata, abituandoci sì ad apprezzare l’artigianato africano, ma allo stesso tempo - nel migliore dei casi – a derubricare a questa categoria anche forme espressive più “alte” della medesima provenienza.  Con scarsa curiosità e, di conseguenza, poca ricerca.
Ma, se torniamo alla contemporaneità, la previsione di Clifford sembra più prossima a realizzarsi per ragioni apparentemente non riconducibili all’ambito dell’antropologia culturale tout court. Le ragioni del mercato, le cui dinamiche si traducono in una visione più laica dell’arte, libera da quelle sovrastrutture che spingono le comunità a ricercare, anche nell’esperienza estetica, elementi di conferma delle costruzioni e delle esperienze sociali che le organizzano. È qui che si muove “qualcosa di nuovo” e che la spontaneità dell’interesse privato sostiene una percezione realmente moderna delle opere provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo.
Alla fuga in avanti dei mercati, puntualmente, corrisponde lo slancio delle istituzioni culturali più avanzate, che finalmente recuperano la produzione artistica africana – anche moderna e contemporanea - all’interno dei loro percorsi espositivi, riconoscendole il ruolo che riveste nella storia dell’umanità.
Nei casi di maggiore successo abbandonando anche la (semplicistica) prospettiva geo-etnografica in favore di una classificazione qualitativa dell’arte del Continente, transnazionale per natura e per storia.
Karen Blixen scriveva: “L’aria, in Africa, ha un significato ignoto in Europa: piena di apparizioni e miraggi, è, in un certo senso, il vero palcoscenico di ogni evento”.
Ma se esiste un tratto distintivo dell’arte africana (il più delle volte connesso all’elemento naturale e spirituale), esso si esprime come fattore culturale, ma non giustifica una rappresentazione che abbia il criterio geografico come unico riferimento.
A maggior ragione in un contesto globale in cui opere e artisti africani emergono, se pure con maggiori difficoltà, attraverso gli stessi mezzi di comunicazione di quelle occidentali, mentre si moltiplicano e consolidano in tutto il territorio rassegne e fiere dedicate alla produzione creativa.
Un fermento ignoto ai più, in quell’Europa descritta più sopra in cui la chiusura culturale appare contigua con il sospetto, la resistenza e la paura con cui è vissuta la pressione migratoria e l’esperienza dell’accoglienza, oggi chiavi di lettura pressoché esclusive della relazione con l’altra sponda del Mediterraneo.
Anche tra gli addetti ai lavori, il pensiero lungo (e profondo) in questo senso, la capacità di  cogliere il potenziale di fattore culturale unificante dell'arte appaiono ancora prerogativa di pochi. O meglio, di poche. 
Karen Milbourne, curator alla National Museum of African Art SmithsonianInstitution di Washington, Silvia Forni, curator al Royal Ontario Museum di Toronto e Presidente di ACASA Triennial di Accra, ReemFadda, curator della Biennale d Marrakech 2016, Zoe Whitley, curator della sezione International Art alla Tate Modern di Londra, Alicia Knock, curator per l’arte africana al Centro Pompidou di Parigi, Tokini Peterside, fondatrice e direttrice di Art X Lagos, AdenreleSonariwo, curatrice del padiglione della Nigeria alla Biennale, Maria Pia Bernardoni, curatore del Lagos Photo Festival, HannahO’Leary, direttrice del nuovo dipartimento di arte africana moderna e contemporanea della già citata Sotheby’s: sono alcuni esempi di donne il cui lavoro testimonia da un lato l’attitudine alla ricerca e al riconoscimento della “materia artistica”, dall’altro la coscienza lungimirante dell’importanza della creatività per lo sviluppo delle comunità.  
Se un movimento di emersione è finalmente in atto, esso è fortemente sostenuto da figure femminili, promotrici con la loro sensibilità e il loro impegno professionale (e spesso a dispetto dei governi) del superamento dei confini, della segregazione culturale e degli stereotipi omologanti e diminutivi entro i quali la produzione creativa africana è stata classificata fino ad oggi.
E, da questo lato del mare, se nell’immediato futuro può scorgersi la possibilità di uno scostamento dalla visione post-colonialista e incerta con cui l’Occidente guarda all'arte africana, lo si deve ancora una volta alle donne.
Ancora di più: a loro in potrà attribuirsi la responsabilità e il merito di aver avvantaggiato quel passaggio culturale attraverso il quale l’Occidente, finalmente illuminato da una nuova narrazione del Continente Africano tornerà a interrogare se stesso e la sua identità.
 
 
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