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Lo straniante cofano giallo rende omaggio al Drake

  • Pubblicato il: 12/03/2012 - 17:36
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Articolo a cura di: 
Luca Gibello

Modena. Con tanto di prese d'aria (e d’impercettibile luce diffusa), ora il cofano respira di vita propria. Ed è merito dei suoi artefici se la realizzazione non ha tradito l'idea iniziale del suo autore. Sì, perché la storia è abbastanza travagliata. Nel 2004 gli inglesi Future Systems si aggiudicano il concorso a inviti bandito dalla Fondazione casa natale Enzo Ferrari (gli altri erano Cibic, Confino, Cucinella, Iosa Ghini, Klotz, Sauerbruch&Hutton, Zucchi). Tuttavia, in seguito i due soci dello studio Jan Kaplicky e Amanda Levete si separano nella vita coniugale, e poi anche in quella professionale: all'architetto praghese restano il nome e pochi progetti (tra cui quello di Modena), a lei i restanti e la sede londinese. Infine, nel 2009 Kaplicky scompare all'età di 71 anni ma il suo magistero viene portato avanti da Andrea Morgante, classe 1972, architetto di origine modenese ma trapiantato a Milano, che dal 2001 bussa alla porta di Kaplicky chiedendo di essere preso a bottega. Con intelligenza, Morgante (che dal 2009 ha fondato Shiro Studio) ha saputo fedelmente interpretare il progetto, coadiuvato da una delle principali engineering nostrane, Politecnica, che proprio a Modena ha la sua sede.
Il cantiere ci parla di una tecnologia mutuata da altri settori (quello delle tecniche costruttive nautiche, soprattutto), esibita e al contempo celata, declinata secondo un altissimo mestiere artigianale: un bel paradosso per un edificio che vuol apparire come un oggetto d'industrial design. Al di là della geotermia e della domotica, vale per la vetrata autoportante, inclinata di 12,5° e curvilinea, retta da cavi in acciaio pre-tensionati (40 t) agganciati in alto a una grande trave-tubo a sezione cava, saldata in opera pezzo a pezzo da due lattonieri. Vale per la copertura in doghe d'alluminio estruso, piegate secondo curvature (anche doppie) tutte diverse grazie a dime realizzate con processi Cad/Cam su brevetto austriaco (dove non c'è il mare ma una ditta che eccelle nella costruzione sartoriale di barche). Il guscio esterno, poi, risulta sollevato rispetto alla struttura reticolare metallica: poggia infatti su una maglia puntiforme di aste creando una camera d'aria delimitata da membrane all’intradosso. Le travi reticolari, arcuate, scaricano il loro peso sul basamento laterale contro terra, che presto dovrebbe risultare ricoperto di vegetazione.
L'impatto urbano del grande mantello giallo è straniante e senza mediazioni. D’altronde, l’intorno, a meno di un’abbandonata torre neomedievale e un po’ di edilizia minore, non eccelle di certo: sullo sfondo sud, in particolare, svettano i futuri casermoni residenziali delle ex acciaierie, unico comparto di trasformazione attualmente in cantiere per un capoluogo le cui altre principali aree industriali dismesse (ex fonderie e ex Mcm) languiscono in attesa di tempi migliori. In effetti, la città può comunque andar fiera dell’intervento perché, a meno del progetto di recupero culturale del complesso di Sant’Agostino firmato da Gae Aulenti (in corso), il segno dell’architettura contemporanea è totalmente latitante.
Nessuna mediazione metodologica neppure rispetto alla preesistenza. Un restauro quasi filologico per la casa natale del Drake (1898-1988), che ospita il museo a lui dedicato, con elegante quanto espressivo allestimento anti-contestualista, 100% by Morgante. Di fronte, la costruzione ex novo indipendente, sebbene configurata in pianta come un ideale abbraccio, non soffocante ma valorizzato dal proporzionato spazio aperto interposto, al fiero fabbricato in laterizi, sempre visibile dalla galleria attraverso la generosa vetrata, schermata dai brise soleil in estrusioni d’alluminio e conclusa ai lati da baroccheggianti volute rivestite in inox con begli effetti specchianti. Un ossimoro quasi perfetto.
Gli interni della galleria, total white e open space fino a quota -4 m, continuano il gioco di forme fluide che rimanda alla science fiction aerospaziale anni settanta/ottanta. Vi sono ospitate, a rotazione, fino a una ventina d’auto d'epoca: non più, come mostravano i disegni di concorso, bolidi volanti variamente inclinati; i prestatori privati hanno imposto più ordinarie piattaforme di poco sollevate da terra su cui appoggiare i loro gioielli, assicurati per 50 milioni. L'effetto autosalone è comunque scongiurato e tutto è disegnato: dai nodi d’acciaio a microfusione che ammorsano i moduli vetrati, alle maniglie, fino ai lavabi dei servizi.
Infine, un'ultima considerazione sulla cifra stilistica di Future Systems, filo rosso che corre dalla tribuna dello stadio del cricket a Londra (1999) ai magazzini Selfridges di Birmingham (2003). Pur trattandosi di architetti, le loro opere paiono grandi oggetti di design alla scala urbana: poggiati al suolo, manca il pathos tettonico, la sfida alla gravità e il disegno dei dettagli. Avvertiamo una sorta di disagio: lo stesso che ci coglie di fronte agli edifici di Philippe Starck, simili a tostapane, o di fronte a quelli di Alessandro Mendini, che paiono arredi.

da Il Giornale dell'Arte, edizione online, 10 marzo 2012