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La riforma prende corpo

  • Pubblicato il: 13/05/2016 - 20:42
Rubrica: 
NORMA(T)TIVA
Articolo a cura di: 
Francesco Florian

Seconda puntata di riflessione del prof. Francesco Florian sul disegno di legge di riforma del Terzo Settore
 
 
 

Una parte centrale del Disegno di legge sulla riforma del Terzo Settore attiene al riordino ed alla revisione organica della “disciplina vigente in materia di enti del Terzo settore mediante la redazione di un codice per la raccolta e coordinamento delle relative disposizioni, con l’indicazione espressa delle norme abrogate” (art. 4 primo comma). Seguono, poi, i principi cui si dovrà attenere il codice.
E’ bene sottolineare fin da subito un profilo molto importante di tale previsione: dovrà essere, infatti, adottato un Codice vero e proprio, con ciò intendendosi una fonte di diritto primaria, sistematica, costituita da norme generali ed astratte con forza abrogativa di norme antitetiche od in contrasto tra loro.
 Accanto al codice civile, al codice penale, al codice dei beni culturali ed agli altri, vi sarà, nel nostro ordinamento, un vero e proprio corpo normativo (il Codice del terzo settore, appunto) di pari dignità e valore. Si può pure immaginare che, nel suo articolato, conterrà una disciplina ulteriormente speciale quanto a tipi legali oggetto di disciplina e revisione, sanzioni, adempimenti ed altro (come accade, ad es., per il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio in punto di alienazione, diritto di prelazione, sanzioni penali ed amministrative).
E’ evidente che il “primo rapporto di specialità” si porrà proprio con il Libro Primo del Codice Civile. Ed infatti, se quest’ultimo conterrà la disciplina di associazioni, fondazioni e comitati, quali genus, il Codice del terzo settore dovrà prevedere la disciplina attinente alle varie declinazioni di tali tipi di enti e quindi, ad es.,  associazioni di volontariato, aps, associazioni e fondazioni Onlus, sportive, culturali e di promozione culturale.
E’ altrettanto chiaro che, oltre a requisiti statutari squisitamente attinenti ai vari tipi, la vera partita è il riordino della disciplina fiscale, su cui si misurerà la reale tenuta del provvedimento in commento
Ed infatti a scorrere i criteri elencati nel disegno di legge, cui la riforma dovrà ispirarsi ed attuare, essi attengono a tre principali profili:

  1. Genuinità, attualità ed effettività di tali enti;
  2. Disciplina fiscale di favore il cui presupposto d’accesso è costituito da un preciso impianto statutario;
  3. Trasparenza e tutela dei terzi.

Quanto al primo aspetto, le lettere a), b), c), d ed e) descrivono, in buona sostanza, l’impianto statutario che gli enti del terzo settore devono avere, con una specifica attenzione riguardo alla definizione e classificazione delle attività di interesse generale che li devono caratterizzare, nella cui cornice si potrà prevedere anche una attività d’impresa ma sempre in forma non prevalente e non stabile. Nel fare ciò, si dovranno individuare criteri e condizioni in cui differenziare le diverse attività istituzionali.
Quanto sopra è reso effettivo ed attuale da un impianto statutario che dovrà definire forme e modalità di organizzazione, amministrazione e controllo degli enti ispirate a principi di democrazia, eguaglianza, pari opportunità e partecipazione “degli associati e lavoratori” nonché a principi di efficacia, efficienza ed economicità, in un contesto di non distribuzione dell’utile.
Non solo. Viene sancita l’obbligatorietà di puntuale traduzione del tutto in termini di documenti contabili, impianto degli stessi, rendicontazione, verifica periodica e controllo.
Tale circostanza intercetta il principio di trasparenza e tutela dei terzi in uno con la registrazione degli enti del terzo settore in registri settoriali che convergeranno un in Registro unico nazionale, accessibile a tutti.
Resta in ogni caso fermo il principio di non distribuzione dell’utile pur giustamente distinto da eventuali compensi e/o corrispettivi agli amministratori o dipendenti, concepito sulla base di una proporzionalità che non ponga nel nulla la finalità di assenza di lucro soggettivo, ma che consenta di pagare chi nel terzo settore lavora.
Ove tutto quanto sopra sinteticamente descritto nella sua portata concettuale sia tradotto negli statuti e soprattutto negli atti/gestione degli enti in parola, ebbene: solo in tale caso scattano i benefici fiscali.
Vero è che dall’impianto complessivo pare che il legislatore abbia posto particolare attenzione agli enti di tipo associativo. Tale opzione, sebbene possa sembrare riduttiva ad una prima lettura, in realtà non lo è.
Sono tali tipo di enti a costituire la maggioranza di quelli non commerciali e sono essi a rappresentare una primaria espressione della capacità aggregativa del terzo settore, costituendo nel contempo una delle manifestazioni più genuinamente costituzionali della libertà individuale.
Per altro verso, essendo enti a struttura fisiologicamente aperta, coinvolgono più di altri la c.d. società civile sia in termini di appartenenza sia in termini di beneficiari dell’attività. In tale contesto possono annidarsi patologie dovute a poca trasparenza, interna ed esterna, superfetazioni amministrative, attività “virtuale” e struttura chiusa (esplicitamente in contraddizione con il nomen juris “associazione”).
Merita poi attenzione quanto previsto alla lettera o) del disegno di legge, ove il legislatore stabilisce il principio di “valorizzazione del ruolo degli enti nella fase di programmazione a livello territoriale” su due specifici versanti:

  1. Sistema integrato di interventi e servizi socio assistenziali;
  2. Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, paesaggistico ed ambientale

in modo da individuare standard di qualità e impatto sociale dei servizi svolti ed a tali enti ed affidati, nel rispetto della normativa nazionale ed europea, anche con procedure semplificate. A ciò si deve accompagnare una verifica puntuale in termini di qualità ed efficacia dell’attività svolta.
Devo dire che quest’ultima previsione alza il livello di “considerazione” di tutto il settore, sancendo una volta per tutte, e nel contempo prendendo atto, del ruolo significativo che nel nostro paese hanno gli enti non commerciali.
E le fondazioni? Come si è detto l’attenzione si è puntata sulle forme associative ma alle fondazioni paiono rivolgersi quei principi attinenti alla contabilità, rendicontazione, specificità di poste di bilancio, verifica e controllo delle medesime, compensi: in una parola, criteri afferenti alla “patrimonialità” degli enti non commerciali. Per la verità, son principi tutti che attengono e derivano dalla natura stessa delle fondazioni che sono patrimoni amministrati in funzione di una finalità dettata dal fondatore: e ciò quand’anche aperte alla iscrizione successiva di altri soggetti (iscrizione che non comporta una conversione della loro natura in ambito associativo).
Resta da soppesare, ma molto dipenderà dalla relativa attuazione, la circostanza attinente alla creazione di un Registro unico nazionale. Di registri in Italia ne abbiamo tantissimi e viste le caratteristiche di questa parte del disegno di legge, era forse più semplice innestarsi nel circuito delle Camere di Commercio (come già alcune Regioni fanno per la gestione del Registro persone giuridiche private), già ampiamente abituate a gestire tutti quei dati sensibili ai fini della tutela dei terzi, trasparenza e controllo. Non è detto che sul punto, magari, si possa assistere ad una vera semplificazione nei decreti attuativi.
Vi è da ultimo, un principio che attiene al riconoscimento e valorizzazione delle reti associative di secondo livello “ intese quali organizzazioni che associano enti del Terzo settore, anche allo scopo di accrescere la loro rappresentatività presso soggetti istituzionali”. Con questa previsione si fanno emegere, ed avranno disciplina, tutte quelle forme federate che, nate dalla prassi, non pochi problemi hanno posto agli operatori del diritto. Non si tratta, infatti, dello schema tipico delle associazioni di categoria non foss’latro per il fatto che se di categoria si vuol parlare, occorre rifarsi a “categoria d’interesse generale” e non per tipologia di attività svolta. Eì chiaro che questa considerazione generale, ma non meno fondante, ha prodotto struttire screziate, quanto a tipologia di attività dei soggetti federati, oltrepassando il limite della configurazione giuridica di ogni singolo ente. Nel settore che interessa, credo che difficilmente si possa assistere alla nascita  di “confindustrie” almeno non con l’impianto che siamo abitualmente portati a considerare. Bene ha fatto quindi il legislatore a sottolineare la opportunità della nascita di queste strutture federate e il ruolo istituzionale delle medesime, potendosi prevedere, in sede di attuazione del principio dettato, requisiti strutturali ad hoc, suggeriti dall’intero comparto non profit.
 
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