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La cultura in trasformazione. Il punto sui processi di innovazione della cultura

  • Pubblicato il: 14/11/2016 - 21:55
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Articolo a cura di: 
Neve Mazzoleni

L’associazione culturale cheFare pubblica il volume “La cultura in trasformazione. L’innovazione e i suoi processi”, ed Minimum fax, dopo quattro anni di osservazione dei processi produttivi nel settore culturale attraverso l’omonimo bando. Una narrazione polifonica, che da testimonianze personali under 40, passa a mappature scientifiche per descrivere l’industria culturale in cambiamento. Una lettura, che fotografa un Paese e un sistema in transizione, ribadendo la necessità della capitalizzazione delle esperienze, evitando di perdere la funzione di connettore sociale

Milano. Di cosa parliamo quando parliamo di produzione culturale?
Questa è una domanda ricorrente, intorno alla quale un gruppo disomogeneo di professionisti culturali under 40, in vari appuntamenti, nelle cornici di differenti festival, si è confrontato e ha tentato di rispondere, partendo da Lecce nel caldo autunno del 2014. Dopo Lecce, Venezia, Mantova, Palermo, Torino, Ferrara, Roma. Diversi incontri hanno aggregato un multiforme coro (che si diede il nome di Culturalia), da chi lavora nelle istituzioni che siano pubbliche o private, a free lance, fino ad associazioni culturali, in uno spontaneo movimento di opinione che intorno al fenomeno dei bandi culturali, che la scrivente ha seguito fin dagli esordi, ha rimesso al centro un tema: la necessità di innovare il settore culturale.

Il “movimento” ha radici più lontane: prese le mosse dal 2008 quando il MIBACT abbattè decisamente il FUS (Fondo Unico dello Spettacolo) e la stagione delle contrazioni economiche nel settore culturale si avviò come moto senza ritorno. Prima di allora infatti non si parlava affatto di innovazione sociale a base culturale dal basso. Nessuno in Italia aveva mai messo in discussione che la Cultura, in quanto cosa pubblica, dovesse essere supportata da altri Enti o organizzazioni diverse dallo Stato.

Nel 2012 esordì il bando cheFare con l’offerta di 100.000 Euro per progetti di innovazione sociale a base culturale: lo stesso anno in cui 10 Fondazioni di origine bancaria lanciarono Funder35. Fra le prime iniziative promosse da un’organizzazione indipendente in questo ambito. Intorno a cheFare e a quei primi bandi, prendeva corpo un’intuizione: esisteva un sottobosco produttivo ai margini del mercato che stava ripensando il prodotto culturale, la sua distribuzione, la sua funzione, utilizzando strumenti digitali con pratiche di co-creazione, contenuti interdisciplinari per rileggere il patrimonio culturale e utilizzando un metodo di lavoro che guardava all’impresa. Un'intuizione condivisa anche da Istituzioni filantropiche territoriali come le Fob.

Una stagione partita con grande entusiasmo, liberando molte energie e una fitta rete di realtà territoriali indipendenti, verso le quali hanno rivolto subito lo sguardo centri di ricerca. Sono scese in campo le Fondazioni di origine bancaria, corporate e infine qualche amministrazione pubblica con il lancio di altri Bandi e altri premi nel corso degli anni successivi.
Ma “guardare dentro” a quel fenomeno emergente ha messo in luce anche i lati oscuri: i confini sperimentali e parcellizzati; difficoltà di aggregazione per costruire un percorso strutturato di cambiamento per l’eterogeneità e la molteplicità di esperienze; un altissimo tasso di precarietà nel lavoro; la quasi assenza di infrastrutture; la rigidità delle istituzioni culturali istituite a dare spazio e sostegno perché faticano a mettersi in discussione.

cheFare non è solo un bando ma è un’associazione per la trasformazione culturale, nata nel 2012 per sviluppare il bando. Dal 2014 è diventata un’organizzazione indipendente che si occupa di produrre e aggregare pratiche concrete e riflessioni teoriche sui mutamenti culturali in corso e nei prossimi anni. Ebbene, dopo quattro anni di lavoro in questo ambito, ha deciso di dare ai tipi di Minimum fax il volume La cultura in trasformazione. L’innovazione e i suoi processi”. Il merito è quello di aver messo per scritto un coro di voci ed esperienze, con un andamento dal micro al macro, e di avere cominciato a restituire per la prima volta l’analisi di un fenomeno in divenire, ma che comincia a capitalizzare prassi.
Effettivamente è anomalo pubblicare un libro cartaceo sull’innovazione di questi tempi, dove l’informazione e i contenuti viaggiano sul digitale, distribuiti dai social network, ma i curatori del volume, Bertram Niessen e Marco Liberatore, hanno voluto un pamphlet di memoria avanguardistica per tradurre il fenomeno: essere presenti nella contraddizione, nel polverone a volte retorico dell’innovazione culturale, per mettere le mani e cercare di capire, trovare una traccia per la costruzione di una consistenza di un percorso di cambiamento. E non per ultimo per moltiplicare gli effetti virtuosi delle buone pratiche.

Alla presentazione del volume a Milano, nella coraggiosa libreria di quartiere Gogol and Company in Giambellino, le parole che mi hanno colpito sono la parte destruens:Siamo di fronte a una sorta di racconto generazionale, che restituisce la celebrazione di un lutto di un gruppo di orfani scoraggiati: giornalisti senza redazioni, ricercatori senza università, luoghi di produzione abbandonati, chiusi, dimenticati”. Una trasformazione sulla quale pesa l’assenza delle Istituzioni, che effettivamente non compaiono nei racconti di questo libro, sottolineando come la bilancia dell'innovazione non penda dalla parte dell'establishment. Il libro narra la fine dell’industria culturale come l’abbiamo conosciuta, con determinati processi di produzione e distribuzione, nella quale l’intellettuale ricopriva un ruolo sociale riconosciuto come agente di crescita. Eppure a questa consapevolezza, si affianca la parte costruens: la nuova produzione culturale, seppur embrionale, passa attraverso la legittimazione con i pubblici di riferimento, che partecipano alla sua definizione, co-progettando i contenuti e quindi la loro distribuzione attraverso sia la rete, ma soprattutto la socialità.

Il volume è una polifonia, condotta da tante penne differenti. Si presenta con una struttura tripartita, che da una visione micro affidata alle testimonianze di esperienze dirette giunge alla modellizzazione macro sui fenomeni.
Nella prima parte compaiono le testimonianze “sul campo” di professionisti di settori chiave come il giornalismo, la ricerca e l’editoria, alle prese con i profondi cambiamenti e difficoltà del mondo della cultura nel suo complesso, al confronto con internet, la globalizzazione e la precarietà (Christian Raimo, Vincenzo Latronico, Jacopo Tondelli). La seconda sezione prosegue proprio con l’esplorazione delle nuove definizioni, sia di cultura senza impazienza, ovvero portatrice di valori su lungo periodo che necessitano di essere coltivati, sia delle nuove figure cresciute in questi anni, quali l’accademico autoriferito e distaccato, l’iper-esperto funzionalista e arido, e infine il dilettante per professione, che indugia nella piacere della materia (Gianfranco Marrone, Roberto Casati), molto lontane dall’intellettuale critico e in contatto con il mondo.
Infine, il volume chiude con mappatute scientifiche, che indagano i confini della trasformazione della cultura. Il mondo della nuova imprenditoria culturale e di conseguenza dell’economia e mercato nel quale agisce (Paola Dubini); i processi sociali, culturali ed economici “non formali” ovvero alternativi allo standard che manifestano istanze di innovazione e/o reazione alla struttura, fragili, fallimentari, insostenibili talvolta, ma altre volte rivoluzionari e comunque luogo di osservazione per le trasformazioni emergenti (Ivana Pais); il ruolo delle amministrazioni locali come agenti connettivi e abilitanti, centrali per l’emersione dei processi di innovazione (Alessandro Bollo).

Nell'intenzione del volume non ci sono parole definitive, nemmeno un orizzonte teorico chiaro, ma la volontà di continuare a parlare e osservare, di abitare il cambiamento, descrivere una transizione nel suo complesso e forse favorire una presa di consapevolezza sia da parte degli operatori, che delle Istituzioni coinvolte, senza messaggi scoraggiati o apocalittici, come recitano le parole dei curatori: "per noi risulta essenziale provare a immergerci in questo reticolo di aspetti contraddittori per raccontare le esperienze di valore, approfondirne i temi, le questioni e i bisogni, e dispiegare con cognizione uno sguardo critico su questi spazi inconsueti." Infatti nelle testimonianze dei singoli, se emerge forte la divisione delle storie personali, l’amarezza del non sentirsi parte di uno stesso fenomeno e quindi della fragilità dell’azione, il valore sociale della cultura, la sua integrazione vitale col tessuto umano non viene meno. L'obiettivo e' quello di combattere attraverso la divulgazione, la sordità di chi non vuole cambiare, che coinvolge i produttori di cultura come i decisori che liberano sostegni per la sua distribuzione, dimostrando che ci sono nuove strade da esplorare. Forse in quell'autunno del 2014, quella densità di appuntamenti, quei tentativi di aggregazione, quel ripetersi di temi furono prodromi di un primo tentativo di sedimentazione di una nuova energia. L'augurio e' che ci siano altri progetti intorno ai quali continuare ad aggregarsi e sperimentare la transizione.

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"La cultura in trasformazione. L'innovazione e i suoi processi", a cura di cheFare, ed.Minimum fax, 2016, 13 Euro.