La Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. L’America in Italia
Sede italiana della Fondazione Guggenheim di New York, la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia è una fondazione di diritto americano che, in modo avveniristico per l’Italia, fin dal ’92 ha introdotto un modello di «corporate partnership» strutturato. Con un background da storico dell’arte e restauro, Philip Rylands è responsabile della Collezione Peggy Guggenheim dal 1979. Si è costruito le proprie competenze gestionali strada facendo. Dalla conversazione emergono forti e chiari i vantaggi di essere un’istituzione autonoma con uno sguardo sempre rivolto oltreoceano: «ho gestito il museo come la sede italiana di un museo americano, anche se il palazzo e la collezione sono vincolati dal ministero dei Beni Culturali e anche se siamo territorialmente, fiscalmente e culturalmente italiani».
La vostra politica di sostenibilità, sia per New York, sia per l’Italia, oltre ai contributi privati, prevede un sostegno pubblico?
Siamo autonomi. Riceviamo sovvenzioni dalla Regione Veneto mirate alle attività didattiche e a qualche mostra, che incidono dell'1% sul nostro bilancio. Il 50% è coperto dagli ingressi: 350.000 visitatori stabili nel tempo ci assicurano un importante flusso di liquidità che va ben oltre lo standard dei musei italiani.
Nel 2003 abbiamo riqualificato gli spazi, aprendo un nuovo ingresso, più accogliente, che ha coinciso con un incremento annuale di circa 50.000 visitatori, un flusso che ha un impatto anche sul bookshop, che consideriamo come un’estensione della nostra attività didattica. Lo gestiamo direttamente e ci dà entrate per il 20% del budget. Gli eventi al museo, affitto degli spazi, piccole o grandi donazioni, sponsorizzazioni coprono il restante 30%.
Dopo tutte le spese, sia fisse che variabili, chiudiamo il bilancio con un utile lordo di circa €100.000.
Quanto conta il contributo delle imprese?
Circa il 5%. Abbiamo partnership di lungo termine, come quella con BSI e con le Intrapresae Collezione Guggenheim, che ogni anno ci sostengono , fino a coprire circa il 5% del budget.
Nella nostra relazione con le imprese la fiducia e la continuità sono molto importanti. Con riunioni periodiche cresce il senso di appartenenza a un gruppo, di partecipazione alla nostra attività istituzionale, che ci permette di fidelizzarle, di coinvolgerle. Le aziende hanno diversi motivi per associarsi: la prima è la qualità della comunicazione culturale, rispetto allo sport o la pubblicità classica, segue lo status, ovvero l’associazione a un brand internazionale e di prestigio che migliora il posizionamento di mercato, ma soprattutto l’illuminato desiderio di vedere altre realtà, di confrontarsi oltre il business.
Il vostro network internazionale fa la differenza per i programmi corporate?
Ogni tanto, ma è abbastanza costoso conciliare i calendari. A Berlino, l’edificio è di Deutsche Bank, a Bilbao il museo ha un‘enorme quota di soci aziendali, oltre 200 e un programma molto ben strutturato. New York non ha una struttura per fidelizzare nuovi soci corporate, ma nella grande mela il clima è più aperto, più disinvolto. A Venezia abbiamo un dipendente dedicato alle imprese. Nulla è standardizzato. Con ognuna abbiamo un rapporto e un contratto personalizzato.
Avete avvertito comportamenti più prudenziali da parte delle imprese?
Anche se si tratta di investimenti che non cambiano il destino dei conti aziendali, se ci sono riduzioni di personale è complesso giustificare un investimento in cultura. La dirigenza illuminata dell'azienda può vedere nella sponsorizzazione un investimento con ritorno ma non è semplice spiegarlo alle parti sociali.
I donatori privati agiscono su programmi mirati, oppure supportano genericamente la gestione del museo?
Sono molti e in crescita. Il loro sostegno è fondamentale per l'acquisto di un'opera, per finanziare programmi di formazione e in generale le attività del museo. Abbiamo un codice etico che ci vincola sulle disposizioni ricevute.
Essendo una fondazione di diritto americano, i vostri sostenitori hanno la possibilità di avvalersi di deduzioni fiscali?
Se pagano le tasse in Italia, sì. Anche gli americani, viceversa, possono donare e ricevere agevolazioni fiscali nel loro Paese. Inoltre, abbiamo costituito un Charitable Trust in Gran Bretagna, che ha il sistema di deducibilità fiscale migliore del mondo, attraverso il quale donatori inglesi possono scegliere quale museo Guggenheim del mondo sostenere. Chi dona, non solo ha un'agevolazione fiscale al momento della dichiarazione dei redditi, ma lo Stato integra la sua donazione con un sistema di “Gift aid”, con un ulteriore 22%.
Il recente e interessante progetto di Guggenheim BMW Lab di New York, segue la filosofia di un progetto specifico che associa il brand dell'impresa a quello del museo. Questa è una modalità che può trovare estensione anche nel nostro Paese?
Sì, sono progetti che si possono costruire con l’impresa. Questa modalità potrebbe far superare la tendenza che hanno i grandi sponsor nel creare progetti culturali propri.
Per noi la gestione è semplificata perché siamo privati slegati dai meccanismi di burocrazia e di politicizzazione che strangolano le iniziative a lungo termine nei musei pubblici, nei quali la programmazione lungimirante non sembra possibile.
Noi possiamo disporre immediatamente dei fondi che incassiamo. Non è così per le realtà pubbliche in Italia. I fondi finiscono nelle casse dello Stato e non si sa se con la formula del «redistributional welfare», torneranno indietro. Comunque la situazione di crisi, di urgenza impone e stimola agilità, flessibilità, creatività, disponibilità alla collaborazione.
dal X Rapporto Annuale Sponsorizzazioni del Giornale dell'Arte (novembre 2011)
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