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Io sono un artista

  • Pubblicato il: 15/10/2017 - 20:00
Autore/i: 
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Elena Inchingolo

Marco Fattuma Mao’ compare nella mostra Fuoriserie a Palazzo Barolo, a Torino, con Rahcconto O’, un insolito archivio fatto della storia - in fase di pubblicazione, in sei volumi, presso Prinp 2.0 Editore - dell’artista italo somalo, che ha scelto di uscire dai circuiti. Ritratto da Michelangelo Pistoletto per il celebre quadro specchiante “In Gabbia con mulatto che scopa,” diventa l’icona perfetta del prigioniero, perché non è né bianco, né nero e la sua libertà non viene rivendicata da nessuno. Il suo è diventato un viaggio per la libertà.
 

 
Nell’ambito della rassegna Singolare e Plurale 2017, promossa da Opera Barolo / PARI / Polo delle Arti Relazionali e Irregolari: Palazzo Barolo e Housing Giulia e dalla Città di Torino, sono in corso  fino al 12 novembre tre mostre d’arte contemporanea con laboratori, workshop e residenze d’artista, con l’intento di promuovere l’arte come strumento di cambiamento, crescita personale. Tra le proposte dell’iniziativa si pone l’attenzione sulla mostra FUORISERIE, a cura di Daniela Rosi e Tea Taramino  - e in collaborazione con Annalisa Pellino e Beatrice Zanelli di Arteco e Gea Bianco ed Elena Menin di Artenne -  che si presenta come un percorso d’indagine sui talenti insoliti che abitano le “terre di mezzo” dell’arte mainstream: una costellazione di artisti che si esprime nella complessità e nella ricchezza degli immaginari, speciali e “fuori serie”, che si possono scoprire in tali aree liminali, ma pulsanti di energia creativa.
 
Si tratta di venti artisti – internazionali, emergenti o sconosciuti - in dialogo attraverso opere, installazioni e video: Salvatore Accolla, Adolfo Amateis, Antonino Arcidiacono, Giorgio Barbero, Nereo Benedetti, Pietro Campagnoli, Roberto Celli, Jacopo Dimastrogiovanni, Lina Fiore, Francesco Galli, Gustavo Gamna, Mauro Gottardo, Gi, Caterina Marinelli, Alessandro Monfrini, Primo Mazzon, Jhafis Quintero, Dario Righetti, Aldo Turco e Marco Fattuma Mao’. Raccontiamo qui la storia di Marco Fattuma Mao’ con Rahcconto O’, un insolito archivio d’artista a Torino.
 
E’ in seguito alla mostra Zungentatterich nel 1982, presso la galleria Franz Paludetto di Torino, che Marco si allontana volontariamente dal sistema ufficiale dell’arte, prediligendo un percorso artistico autonomo, di ricerca e sperimentazione in diversi ambiti.
Dal 1981 l’artista raccoglie e cataloga tutti i progetti di arte, architettura e design che realizza fino al presente, con il desiderio di poterli un giorno pubblicare e divulgare come testimonianza storico-artistica di un percorso alternativo, fuori dal circuito dell’arte mainstream.
 
Marco Maò attraverso la performance e la fotografia conduce un personale iter estetico e filosofico sui temi dell’incontro, del tempo e del viaggio. Giovanissimo, in seguito agli studi di fotografia, è assistente di Paolo Mussat Sartor, dando avvio alla ricerca Arte, Architettura e Vita
 
Nel 1982, in collaborazione con l’architetto Loredana Dionigio, fonda INVENZIONE, uno studio di architettura, dove oltre alla produzione di progetti creativi, si attivano sinergie con artisti nazionali e internazionali. Oggi  collabora con il Comune di Torino per laboratori didattici con bambini e persone con disabilità.
 
Da allora ad oggi nell’ambito del progetto di vita Io sono un Artista, Marco si è dedicato ad un’accurata pratica di archiviazione del proprio lavoro, registrando in maniera particolareggiata ogni sua idea, atto performativo o produzione creativa.
Gli abbiamo rivolto alcune domande per meglio comprendere la sua ricerca.
 
Come nasce la sua passione per l’arte? Ci può raccontare come ha esordito?
Nel cuore mi sono sempre sentito un artista.  Sono nato a Mogadiscio e nel maggio del 1957, all’età di 6 anni mi sono trasferito a Torino.
Ho sempre avuto una predilezione per il disegno fin dalla tenera età: a quattro anni tornavo dall’asilo e mi sedevo a disegnare in autonomia. Mi sono poi diplomato in fotografia e ho conseguito la maturità artistica e, successivamente, ho frequentato il Corso di Architettura al Politecnico di Torino per potermi misurare anche con spazi più ampi.
Mi sono sempre distinto nel disegno in relazione a qualsiasi tipo di rappresentazione artistica.
La consapevolezza della dichiarazione d’artista è avvenuta a circa 16 anni in seguito alla mia collaborazione con Paolo Mussat Sartor, in qualità di suo assistente.
Al terzo anno del Corso in Architettura iniziai a collaborare con l’architetto Loredana Dionigio con cui entrammo in società inaugurando lo studio INVENZIONE. Linguaggi di Architetture e Linguaggi di immagine. Erano i primi anni Ottanta e l’idea di progettazione di spazi era globale, includeva anche la moda, il design, proprio come succedeva nel Rinascimento. E’ stato proprio in quel periodo e precisamente nel 1981, che decisi di inviare la mia prima opera, La scatola senza tempo, alla Biennale di Barcellona.
L’anno successivo, nel 1982, allestii una mostra presso la galleria Franz Paludetto di Torino, dichiarando così di essere un artista. Anche sulla mia carta d’identità veniva indicata inequivocabilmente la mia professione!
Decisi così di iniziare a raccogliere e conservare, come in un archivio, tutti i progetti che realizzavo, in un percorso autonomo, fuori dal circuito mainstream, da quel momento fino al presente.
Pensai di agire per mio conto con l’idea che se ce ne fosse stata la possibilità, in futuro, avrei raccontato la mia storia.
 
Ci può citare un suo progetto per lei particolarmente significativo?
Nel 1975 ero assistente di Paolo Mussat Sartor in un percorso di ricerca per Arte, Architettura e Vita.  
In quel periodo Paolo lavorava a stretto contatto con gli esponenti dell’Arte Povera, come Giuseppe Penone, Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio, Michelangelo Pistoletto…Un giorno mi chiese di essere il soggetto di alcune fotografie che stava realizzando per un progetto di Michelangelo Pistoletto.
In particolare mi fece due scatti uno che mi ritraeva con una scopa di saggina in mano ed un altro con un mio amico che si grattava la schiena. Qualche mese dopo vidi, presso la galleria Sperone di Torino, le mie immagini serigrafate su due Quadri Specchianti di Michelangelo Pistoletto: Gabbia con mulatto che scopa e Ragazzo che si gratta la schiena.
 
In Gabbia con mulatto che scopa, il mulatto diventa l’icona perfetta del prigioniero, perché non è né bianco, né nero e la sua libertà non viene rivendicata da nessuno.  In questo caso il soggetto non conta perché appartiene al passato. Pistoletto stesso afferma che il soggetto fisso di un Quadro Specchiante appartiene al passato, mentre il presente e il futuro, dinamici, si alternano riflettendosi sulla superficie del quadro stesso. A questo lavoro ho dedicato un progetto performativo sulla nozione di tempo.
Intanto in occasione della mostra retrospettiva di Michelangelo Pistoletto presso il Philadelphia Art Museum nel 2010, in seguito ad uno studio antropologico, ad opera del museo stesso, sui soggetti dei suoi quadri, il mulatto acquisì finalmente un nome, che in catalogo venne indicato come “Marco Fattuma Maò, assistente di Paolo Mussat Sartor”.
La stessa mostra fu ospitata al MAXXI di Roma nella primavera del 2011 e in quell’occasione pensai di realizzare un atto performativo che mi liberasse dalla gabbia nel quadro. La mia immagine nel quadro, che corrisponde al passato, rivive nel presente in una performance che registrata e fotografata affranca il soggetto dalla gabbia.
Realizzai così una scopa in plexiglass smontabile e, insieme a cinque amiche e amici, mi recai a Roma, il giorno dell’inaugurazione ad inviti della mostra. Quella sera, davanti al quadro in esposizione, riproposi l’azione rappresentata. Ero finalmente libero, fuori dalla gabbia!
L’ultimo atto del lavoro si realizzò a Parigi, al Louvre, nel 2013 dove Gabbia con mulatto che scopa venne esposto nella Galleria degli Italiani. In quella sede, nell’icona di un nuovo soggetto, sempre in uno scatto di Paolo Mussat Sartor dal titolo Il Pulitore, testimoniai la mia presenza, Io Marco Fattuma Maò sono Qui, nella declinazione e nel significato latino del termine “in quel luogo”.
 
Da soggetto - oggetto artistico, con la performance e con la successiva testimonianza fotografica, mi sono riappropriato della mia identità di Uomo e mi sono affermato come soggetto autoriale. Un’azione in movimento che chiude simbolicamente il cerchio del tempo di un’opera.  Ogni atto di conoscenza è un viaggio e ogni viaggio è un atto di conoscenza. Tutti i viaggi dovrebbero avere un ritorno.
 
Che cos’è Rahcconto O’? Potremmo definirla un’auto catalogazione? Cosa ha selezionato per il suo archivio?
Rahcconto O’ racchiude, a partire dal titolo e dal segno grafico, diverse suggestioni: la “R” rappresenta graficamente la ripresa, il riavvolgere; “Rah” è la divinità egizia della luce che impressiona i fotogrammi; “O’” da Maò, il mio cognome, che ha una “o” accentata: l’accento dà il movimento al cerchio e all’onda sonora in una giocosità continua. Prima della luce ci fu il verbo che ha dato il movimento. Maò è un antichissimo cognome somalo tramandato oralmente.
I miei sono appunti approfonditi per raccontare storie e poter insegnare, secondo l’antica tradizione somala. Ogni capitolo del mio libro/archivio ha una storia al suo interno che non è svelata finché non la racconto. Nell’archivio è inclusa tutta la mia vita artistica: 6 volumi, di cui uno audio con una voce narrante, un altro in forma di fitto story-board cinematografico e altri 4 composti di immagini.
 
Come definirebbe la sua pratica di archiviazione?
Di fatto è un’archiviazione, ma io la intendo più come una rivelazione sulla mia vita e una raccolta di appunti per nuove progettualità da realizzare in futuro in giro per il mondo.
 
Come ha sentito il desiderio di iniziare questa attività conservativa?
Io ho iniziato la mia professione d’artista in maniera autonoma e intima, pensando che prima o poi sarebbe arrivato il momento di raccontare il mio percorso. E’ un desiderio che mi appartiene da sempre. Bisogna anche considerare che io ho rischiato di morire e l’archivio ha rischiato di andare distrutto in un incendio, eppure io sono sopravvissuto e l’archivio si è conservato fino ad oggi.
 
Ci può raccontare la sua esperienza professionale al fianco di Paolo Mussat Sartor?
L’esperienza professionale con Paolo è durata solo due anni.
Ero molto giovane. E’ stato davvero stimolante, a contatto con artisti e galleristi. Nel tempo siamo rimasti molto amici e continuiamo a frequentarci. Mi ricorda come il suo miglior assistente….
Sono stato anche il soggetto di alcuni suoi progetti, in particolare ricordo una serie di ritratti che componevano l’opera Il Re del 1976.
 
Quali sono i suoi ricordi legati allo studio INVENZIONE?
Lo studio INVENZIONE. Linguaggi di architetture e Linguaggi d’immagine è rimasto attivo, con me, circa 8 anni, dal 1982 al 1990.
Spesso io e la mia socia, l’architetto Loredana Dionigio, ospitavamo mostre di artisti dell’Arte Povera che frequentavano la Galleria di Giorgio Persano. Con Loredana oltre alla progettazione d’interni (del 1985 sono le commissioni per lo Squash Point e per il Ristorante La Pace di Torino) abbiamo realizzato progetti multidisciplinari tra arte e moda. Ricordo in particolare il progetto per lo stilista americano Patrick Kelly per le collezioni primavera-estate / autunno-inverno 1984-1985.
Nel 2014 per la sua mostra retrospettiva al Philadelphia Art Museum omaggiai lo stilista completando l’idea iniziale con un giocoso progetto creativo realizzato con le lettere del suo nome: Turin like Paris, perché avevamo lavorato insieme a Torino, dopo esserci incontrati a Parigi.
 
Da tempo collabora con il Comune di Torino per laboratori didattici con bambini e soggetti con disabilità, come si colloca questa attività nel progetto Io sono un Artista?
Mi interessa molto il confronto a più livelli con le persone. Io imparo dagli altri e a mia volta insegno ad altri ancora in un processo continuo di scambio di energie e percezioni.
Questo aspetto è parte integrante del mio progetto Io sono un Artista.
Ricordo in particolare il Laboratorio Soul Museo del 2011 in cui ho accompagnato un gruppo di ragazzi disabili al museo, chiedendo loro di riproporre con il proprio corpo la posizione o il gesto di un soggetto rappresentato nel quadro che più avesse colpito la loro attenzione. In seguito, insieme, abbiamo fotografato e ritagliato le sagome dei loro corpi e le abbiamo utilizzate per manufatti con la creta, silhouettes dipinte, collages.
Al termine del laboratorio con le opere realizzate, in collaborazione con Tea Taramino, abbiamo allestito la mostra inaugurale della galleria In Genio Arte Contemporanea, nell’ambito di un progetto più ampio che il Comune di Torino dedica alla Rieducazione Sociale attraverso l’Arte.
 
Progetti per il futuro?
Il mio sogno nel cassetto è diventare cittadino e turista del mondo, ovvero l’anello di congiunzione tra il nero e il bianco nell’arte, attraverso il progetto Io sono un Artista.
Questo è il mio Rahcconto O’:
Io nacqui a Mogadiscio in quella che era la bianca e solare capitale della Somalia. Padre italiano e madre somala. Era nel nostro vivere la tradizione tra gli allevatori nomadi somali e nella famiglia di mia madre, donare ai nascituri il primo animale che fosse nato dal proprio bestiame. La prima capretta nata nel gregge era donata alle femmine, il primo “camelo” dromedario al maschio.
Così come fu per mio nonno da suo padre, fu donato anche a me da mio nonno materno il primo “camelo” e a quello fui legato nel destino […]
Nella savana un leone assalì il “camelo” e solo al terzo assalto riuscì ad ucciderlo […] La storia sembra in qualche modo conclusa finita con la morte del mio “camelo” in maniera cruenta, ma come sapevano i nostri anziani, in questo mondo dove tutto è nell’insieme, tutto è collegato nel vivo, il leone che mangia si nutre del “camelo” e ne trae anche la forza dello spirito. Così lo spirito del “camelo” si trasforma in leone e il leone diventa anche “camelo”.
Quando nacqui mi fu dato il nome Marco e a questo fui legato come al mio “camelo”.
Marco è anche il nome di un evangelista, San Marco, l’animale-simbolo con cui viene raffigurato è il leone alato.
Così, forse, l’anima del “camelo” che guarda e si allunga nell’infinito, ricomposta, ma celata nella forza dell’anima di quel leone, invece di rimanere nascosta in agguato tra i bassi cespugli, ha potuto prendere il volo con le ali di quell’altro leone per raggiungere e vedere altri infiniti.
 
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