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IO SONO APPENNINO

  • Pubblicato il: 12/09/2016 - 10:43
Autore/i: 
Rubrica: 
PAESAGGI
Articolo a cura di: 
Paolo Castelnovi

Dai paesi colpiti dal sisma una lezione politica. 

La morte, che non è più parte organica della nostra vita, che rimuoviamo dalle nostre case e dalle nostre città, relegandola alle immagini inodori delle altre città e delle altre case che ci passa la televisione. La morte, che ci fa bambini nel panico e senza appigli quando arriva vicino, a persone e luoghi che conosciamo. La morte che non sappiamo come trattare, come se imponesse atti speciali, dichiarazioni, eroismi. Il terrorismo conta su questa paura a trattare della morte che da qualche decennio serra l’Occidente. La morte oggi è ormai un tabù nella nostra cultura contemporanea, mentre invece è normale componente della cultura e del comportamento delle società tradizionali. Comprese la nostre. Infatti non sono solo i “pazzi” islamici ad aver dimestichezza con la morte, ma anche le nostre comunità non urbane la tengono presente nel quotidiano e non ne sono terrorizzati.
C’è un faro che mi aiuta sin da ragazzo, nel dare giudizi. E’ il motto della nonna: La stoffa della gente si vede quando ha la tarantola nelle mutande. Mi ha quasi sempre guidato di fronte a tipi importanti che intuivo miseri ma che confermavano la propria pochezza solo alla prima seria disavventura che li toccava da vicino. Vale al contrario sui luoghi terremotati: gente, che intuisci forte e diritta se vai dalle loro parti in condizioni normali, quando è percossa da colpi terribili, si mostra capace di reggere lo sconquasso in un modo così essenziale e strutturato da farne un modello di comportamento civile, un esempio anche per tempi più quieti.
La commozione di questi giorni è stata profonda e ripetuta per me, ma non tanto per i morti e la distruzione. Infatti invecchiando non resisto a una debolezza (o forza) che mi è accaduta senza cercarla, e ho finito per non vergognarmene: le disgrazie e le crudeltà mi chiudono in una rabbia cupa, mentre mi sciolgo in lacrime solo di fronte alle qualità finalmente riconosciute, alla fierezza dei progetti realizzati, alla dignità della resistenza al male. Ecco: ho pianto non tanto alla vista delle file di bare ma del formicaio che smuove le travi e abbraccia il ferito tirato fuori, del sindaco che dice “staremo qui”, del paese che alza la voce una volta sola, non per ciò di cui ha bisogno, ma per reclamare il rito della morte dove la morte ha devastato.

Qui, tra i cumuli di macerie, ho visto brillare un senso primario di civiltà del territorio e della comunità che credo sia l’unico vero strumento di salvezza dalla palude socioculturale in cui ci siamo cacciati.
E quanto più sembra di trovare un modo retto di comportarsi di fronte alla morte di una comunità, tanto più diventa ringhioso il rancore contro le malefatte dei tecnici, contro le mancanze degli amministratori.
D’altra parte si deve resistere alla tentazione infantile di fare capri espiatori: gli uomini cattivi non sono la causa primaria del dolore e delle perdite…. ma comunque ci paiono imperdonabili non solo il profittatore ma anche lo sciatto, il disattento di fronte a una comunità che si risveglia capace di affrontare i problemi più giganteschi in modo semplice.
Qui, ci dicono senza proclami, non si fanno nuove pseudocittà, ma si sa chiedere, e ricevere, casa per i senzatetto a chi la usa per le vacanze (come sta facendo il sindaco di Amatrice); qui non si inventa una burocrazia di autocertificazioni in cui si dichiara che tutto va bene, ma si cura che il consolidamento avvenga per intere insule del centro storico e non per singoli alloggi (come han fatto da 25 anni a Norcia, che il 25 agosto ha resistito quasi intatta e senza morti).
Anche se ipotizziamo per un attimo che non ci siano gli avvoltoi che ridacchiano alla notizia del terremoto, forse vanno guardati anche gli aiuti, le norme di tutela, i tecnici come possibili portatori di danni da trascuratezza e da indifferenza. Alle case della montagna che si muove non si possono applicare le tecniche della pianura: bisogna che tutti sappiano che ormai è chiaro che far tetti di cemento su case in pietra, per facilitare l’isolamento termico, è preparare un omicidio. E’ ormai chiaro che non imporre attenzioni di insieme a gruppi di edifici tutti attaccati, per facilitare le singole proprietà, è preparare una strage. E così via, per decine di altre ovvietà che sono state sempre contraddette dai rimedi faciloni di tecnici e decisori.
Così ora vediamo convivere in questi luoghi storie umili ma grandiose e strategie arroganti ma fallimentari, forza e povertà di risorse, solidarietà e solitudine, generosità e dolore senza rimedio.

Trovo un filo rosso che parte da lontano e unisce questi modi di essere e di sentire e che forse spiega una parte importante di quel che stiamo vedendo accadere.
L’Appennino è la schiena della penisola, su cui si scarica la pressione di un’intera placca tettonica: una regione ben più antica di pianure e di coste oggi sviluppate, che regge da sempre le scosse e i colpi della parte profonda della Terra. Sulle faglie e sotto i vulcani si annidano da sempre gli uomini più capaci di progetti secolari, che fanno della resilienza il loro modo di essere. I Sabini, i Sanniti, gli Umbri, i Piceni, i Lucani e i Liguri hanno resistito ai Romani ultimi arrivati come si resiste ai terremoti: rimanendo lì, con le loro campagne, le loro piccole città, la loro cultura contadina. Sono ancora loro, oggi: quelli che vogliono seppellire i loro morti nei loro cimiteri, che coltivano le campagne intatte al bordo dei nuclei distrutti, che hanno una capacità di sobrietà e di dignità millenaria che li rende resilienti ai cambiamenti. E già, perché in un’epoca che ha fatto della flessibilità il credo, l’arma vincente rispetto al mondo che cambia velocemente, la resilienza non è di moda, è un ostacolo alla libera circolazione dell’ultima stupidaggine.
Se ne riscopre l’importanza solo quando arrivano le mazzate, quando la natura o la guerra devastano.
Essere costanti nei valori di riferimento per la qualità della vita, tenaci, lenti nei cambiamenti, genera la capacità endogena di riassestare un sistema insediativo a brandelli, se ti lasciano farlo in continuità con quello che c’era. E non si tratta tanto delle cose e delle case, ma delle relazioni tra le persone, dei commerci e dei servizi che fanno la comunità. Ricostruire l’habitat per la comunità è l’imperativo che si legge nelle facce dei sopravvissuti. Ma non è un grido di aiuto, è una determinazione decisa, serena, sentita come un atto dovuto nei confronti di chi è morto.
In questi termini (e solo così) l’Appennino si scopre l’habitat più adatto alla solidarietà vera, quella che aiuta gli abitanti a continuare ad abitare. E’ questo esercizio congiunto di autodeterminazione e di compassione che trova teatro sulla montagna terremotata, ma che potrebbe rimuovere una buona parte della schifezza che si addensa negli ingranaggi delle nostre “normali” città e rimettere in moto una macchina che c’è ma è inceppata. Purché non si chieda la remissione dei propri valori, purché aiuti gli abitanti a rimettersi in sesto, con la tabaccheria, la scuola con i suoi ragazzi e la fontana antica che porta acqua nuova.
Così, proprio così, io vorrei essere Appennino.

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