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Focus Montagna XXI secolo. Dolomiti Contemporanee, o della costruzione di una alpinità altra

  • Pubblicato il: 15/09/2018 - 08:02
Autore/i: 
Rubrica: 
PAESAGGI
Articolo a cura di: 
Antonio De Rossi
Storie di ri-nascita e di rigenerazione. Tra le tante esperienze oggi presenti in Italia, il cantiere di sperimentazione culturale di Dolomiti Contemporanee emerge per la forza del tratto e la potenza di visione, intrecciando montagne e spazi abbandonati della modernità quasi impossibili da risolvere e riattivare. Un’esperienza che fornisce indizi inediti e preziosi per pensare un progetto di futuro per la montagna. Con l’intervista a Gianluca D'Incà Levis, ideatore e curatore di Dolomiti Contemporanee e Progettoborca, direttore del Nuovo Spazio di Casso al Vajont, continua il viaggio di Antonio De Rossi attraverso le Alpi contemporanee.

Sono tanti, oggi in Italia, i progetti di rigenerazione di luoghi a matrice culturale e artistica. L’esperienza di Dolomiti Contemporanee (Progettoborca Twocalls) rappresenta però un caso a sé. Ancor prima dello specifico approccio concettuale e operativo, a colpire sono innanzitutto due questioni. I luoghi: DC non opera in borghi o brani del patrimonio storico consolidato, ma in spazi abbandonati o sottoutilizzati della modernità dalle valenze emblematiche e talora persino paradossali. La montagna: DC intrattiene con lo spazio dolomitico (e la stratificazione di immaginari che porta con sé) un rapporto mai didascalico e contemplativo, semmai tensionale e disvelante, dove la verticalità e la materialità fisica dei luoghi giocano un ruolo centrale.
DC nasce nel 2011. Dopo alcune esperienze sul patrimonio industriale in disuso, in cui l’introduzione di nuovi valori d’uso ha avuto ricadute anche sul valore di scambio dei manufatti, oggi DC si è attestato su una linea del fronte est-ovest che dal Cadore si spinge in Friuli. Diversi siti operativi, tra cui ne spiccano quattro. L’immensa e strabiliante Colonia abbandonata presente all’interno del Villaggio ENI di Borca di Cadore voluto da Enrico Mattei e progettata da Edoardo Gellner, vero masterpiece dell’architettura italiana del secondo Novecento. Il forte ottocentesco di Monte Ricco, sopra Pieve di Cadore. L’ex scuola elementare di Casso nel Vajont. E recentemente, l'ex Centrale idroelettrica A. Pitter di Malnisio.
Ma soprattutto, parlando di Alpi e di montagne, DC si configura come un progetto che ridefinisce in termini radicali la tradizionale dicotomia tra centro e periferie, che è il modo con cui le città hanno sempre concettualizzato le montagne. Non si tratta di portare il centro in periferia, o di trasformare la periferia in centro. La strategia per fuochi multipli inaugurata sul territorio dolomitico, le modalità di lavoro ad alta produttività (opere d’arte, laboratori di stampa e fabbricazione, design e autocostruzione) che caratterizzano le diverse operazioni artistiche (e che non disdegnano il “do it yourself” di matrice punk), la creazione di una rete di partenariato con più di un centinaio di attori pubblici e privati, la partecipazione di centinaia di artisti e soggetti plurimi provenienti da tutto il mondo nelle iniziative e residenzialità organizzate da DC, delineano un modello policentrico e insediativo, produttivo e culturale che molto ha a che vedere con quello che dovrebbe essere il progetto di futuro delle montagne e delle aree interne italiane. Non più centro o periferia, interno o esterno, il punto di tensione tra verticalità dei luoghi e della storia e orizzontalità delle culture e delle reti costruisce uno spazio contemporaneo inedito e comunque specifico.
 
Gianluca d’Incà Levis, fin dal nome la montagna gioca un ruolo decisivo nel progetto di Dolomiti Contemporanee. Come viene a declinarsi questo tema, e soprattutto qual è il progetto di futuro per la montagna che DC immagina?
DC, si occupa, in primis, di Paesaggio. Di concepire i paesaggi della contemporaneità, contribuendo ad agirli, trasformarli, cogenerarli. Di effettuare un test continuo sul Contemporaneo stesso, per verificare se e come esso possa portare stimolo concreto al territorio, contribuendo alla rigenerazione del suo Patrimonio perduto (Patrimonio identitario, culturale, storico, ambientale, d'architettura).
Ciò a partire da alcuni siti e spazi esemplari, che in un dato periodo storico furono trainanti per il territorio, e che poi si sono fermati, divenendo dei mesti crateri del paesaggio. Da stazioni propulsive, a corpi disseccati.
Questi siti-della-Montagna, selezionati con cura, mantengono intatto il proprio valore (logistico-culturale), del quale bisogna avere consapevolezza. Quindi essi possono (devono) essere ripresi, riconfigurati, rigenerati, aperti (sono chiusi), per tornare a trainare quel Paesaggio che han preso a divorare (un grande cratere è un po' come un buco nero: la sua inerzia è tale che nulla ne esce più).
La montagna è due cose: uno spazio della verticalità; una costruzione culturale. La frequentazione della montagna da parte dell'uomo ha generato modelli d'insediamento, infrastrutture, cultura: ecco i Paesaggi.
DC, quale ricognitore culturale, dispositivo critico operativo, si occupa dunque dei temi stessi che definiscono (fanno) la montagna, e in particolare delle interazioni tra questo ambiente e l'uomo, e poi, abbiamo detto, della riattivazione di alcuni siti paradigmatici, che vanno contemporaneamente ricentrati e portati fuori da loro stessi: manifestati, e resi estroversi.
Sono siti questi, che mantengono intatto un nocciolo potente d'energia (per chi lo coglie), che va necessariamente scoperto. Edoardo Gellner ci dà una definizione di Paesaggio: la sommatoria di ambiente naturale e azione dell'uomo. Se dunque l'azione dell'uomo sull'ambiente sarà buona, otterremo dei buoni Paesaggi. Fisici, umani, sociali, produttivi, culturali. Quando l'uomo abbandona uno spazio-del-paesaggio, quello diviene un cratere, e si ha una perdita di flusso. Se l'uomo lavora male (nella protezione, nella costruzione - architettura, infrastruttura, pratiche, socialità), ne risulteranno dei Paesaggi deteriori. Se l'uomo trasforma ancora un cratere in un cantiere, egli modifica quello spazio: da corpo disseccato, a stazione propulsiva.
Ma perché, spesso, l'uomo lavora male sul paesaggio? Perché manca d'immaginazione. Usiamo questa parola, dato che è nella domanda. La usiamo in accezione concreta, ovvero letteraria. L'immaginazione, per Baudelaire, è la facoltà ideale, nell'approccio alla realtà, che non va osservata, ma svolta. C'è bisogno di uno sguardo aperto e acceso, per cogliere le corrispondenze tra gli enti, contribuendo alla loro costruzione rinnovativa. Perché la letteratura, in senso ampio (la summa degli ingegni creativi dell'uomo, poietici e scientifici), non è altro che la ricerca, l'approccio critico e creativo, disvelatore.
La letteratura, così intesa, è la concretezza di un approccio valutativo, consapevole, collaborativo, dell'uomo sulla realtà. Dove leggere equivale a scrivere. In questo senso, tutto ciò che fa DC può dirsi letteratura. In quest'accezione, essa è sinonimo di efficacia critica.
E la ricerca è sempre un luogo privilegiato dell'esplorazione: un cantiere dunque. E i gangli che DC accende nei siti semisepolti, per riconcepirli e riavviarli, non sono altro che cantieri, luoghi della sperimentazione culturale. Nel pensiero, nell'azione diretta. Dove nessuna teoria preesiste all'operatività, ma sempre coincide con essa (il pensiero trasformativo è strutturale). Quindi, siccome DC immagina, ecco che fa.
Pensare è fare. Immaginare è fare il presente, non sognare il futuro, che si istituisce a partire dalle relazioni di senso tra le cose e le persone.
 
Stiamo forse uscendo da una lunga fase, iniziata dalla fine degli anni settanta, dove grande parte delle politiche e delle progettualità sulla montagna è venuta a costruirsi intorno la patrimonializzazione delle eredità storiche locali finalizzata al turismo. Ci si inizia però finalmente ad accorgere che questa visione non produce reale rigenerazione e abitabilità dello spazio montano. E soprattutto riproduce ad libitum un’idea della montagna a immagine e consumo delle città e delle pianure.
 
Non credo sia possibile concepire “politiche” dall'esterno del campo. Non si tratta di lasciare la montagna ai montanari, ma di guardarla dall'interno. Noi non abbiamo messo a punto un format o modello, per provare poi a verificare la sua presa e tenuta. Siamo invece andati ad abitare nelle fabbriche e nei siti depressi. Viverli dall’interno vuol dire conoscerli effettivamente. Se non li conosci, come puoi soppesarli, e agirli opportunamente?
Ecco perché, nella pratica di DC, la Residenza è l'Istituto principale. In questi primi sette anni di attività, migliaia le persone (artisti, architetti, designer, antropologi, paesaggisti, economisti della cultura, ricercatori, scienziati, innovatori, forestali, pastori), venute da ogni dove, hanno potuto conoscere le Dolomiti, insieme ai temi della rigenerazione: dall'interno.
Direi che stare dentro, mandando sempre fuori lo sguardo (e gli output di progetto e strategia) è la condizione essenziale per affrontare i potenziali territoriali ed i Beni sopiti. Viceversa, possiamo costruire tutti i piani e programmi che vogliamo, ma, se essi non aderiranno alla realtà (ancora, le corrispondenze), falliranno.
Si tratta, effettivamente, di esserci. Non c'è alcuna possibilità di parlare di turismo, di economia, di sviluppo, prescindendo dall'approccio culturale. Cultura è sostantivo. Turismo, economia, debbono essere aggettivi prospettici, attributi. Il valore autentico di un Bene-risorsa è culturale, e pubblico, sempre. Le altre sono declinazioni particolari di questo valore (se e quando lo sono).
Le stazioni di DC non sono aree montane di picnic e trastullo per “gli artisti”. Sono centri-motore della riflessione e della coprogettazione della complessa risorsa territoriale, aperti al territorio, capaci di attrarre (collettori) e di uscire da esso, per cogliere nuove connessioni vivificanti, e strutturare ampie reti di sostegno alle pratiche, amplificandone la portata.
L'idea che spesso si ha della montagna in città è ridicola: uno spazio per le gite, allestito con il consueto corredo di folklore, di immaginette e libruzzi, e con le maschere di un turismo privativo, che nuoce all'identità del Bene, parzializzandola ai fini di un uso che raramente genera ricadute degne ed efficaci.
Quassù c'è nulla da consumare. C'è invece molto da produrre.
 
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Antonio De Rossi è professore ordinario di progettazione architettonica e direttore dell’Istituto di Architettura Montana. Tra il 2005 e il 2014 è stato vicedirettore dell’Urban Center Metropolitano di Torino. È autore di diversi progetti architettonici, e con i due volumi «La costruzione delle Alpi» (Donzelli, 2014 e 2016) ha vinto i premi Mario Rigoni Stern e Acqui Storia.