Coltivare cultura
Cultura, dal latino còlere, coltivare. Basterebbe l'etimologia a restituirci il senso più profondo di questa bistrattata parola. Invece, nel tempo, ne abbiamo fatto uso e abuso, l'abbiamo snaturata e piegata alle nostre più cangianti esigenze, abbiamo tentato di restringerne o espanderne il significato, a seconda delle discipline, delle stagioni e delle mode. In che senso la utilizziamo oggi? Cosa intendiamo veramente, quando la riempiamo come un contenitore porta-tutto? Di cosa la riempiamo davvero? La vogliamo inclusiva, la vogliamo esclusiva, la vogliamo ancòra?
Evitando di tornare sulle molteplici definizioni che ogni ambito disciplinare ha avanzato nel corso dei secoli, primo fra tutti l'antropologia culturale (essendo suo primario oggetto di studio), preferirei soffermarmi sulla sua origine semantica e da qui provare a fornire un'interpretazione che io stessa sento impopolare, inattuale e fuori moda: tuttavia urgente.
Coltivare la terra richiede cura, attesa, pazienza, presenza, costanza, inventiva, laboriosità, genio, forza fisica e spirituale. La logica interna del coltivatore, colui che coltiva (il campo o l'anima), non è monetaria, non è commerciale, non è guidata dalla ricerca del profitto. Ed è proprio in virtù della sua fuga dalla logica capitalista che il pensiero coltivato può sopravvivere, può permettersi di essere sovversivo, resistente, non addomesticato. Il produttore di coltura-cultura è colui che ha accesso al simbolico e così facendo, può partecipare alla produzione e ri-produzione sociale del gruppo di cui fa parte.
Ora, cosa sono i musei se non i luoghi deputati a questa produzione? Il museo, come il teatro, è il tempio delle Muse, il recinto sacro dello spirito, il luogo della meraviglia e dell'incanto, il catalizzatore e distributore di una cultura che chiede, per definizione, di essere condivisa.
Io vorrei che questo luogo di sospensione e indugio rimanesse primariamente un pensatoio, un amplificatore di conoscenza, rispettando la dilatazione temporale della quale chi coltiva necessita. Vorrei che appartenesse a un tempo altro, quel tempo che determina una qualità, un approccio, una partecipazione inevitabilmente diversi dalle logiche di mercato. Ebbene sì, intendo esattamente rifarmi a quel “tabù post-ideologico” che ha partorito “l'estenuante, manichea opposizione tra cultura e mercato che ha intossicato pensiero e azione per troppi anni”; condivido ancora e sempre di più l'allarme che la teoria critica di Adorno e Horkheimer già lanciava negli anni quaranta del secolo scorso: il rischio che la cultura si riducesse a merce di consumo, ad opera dell'industria culturale (oggi sarebbe più opportuno parlare di industrie culturali, al plurale).
Vorrei che la proposta culturale delle nostre città non si riducesse appunto a industria dell'intrattenimento, vorrei che il suo linguaggio non diventasse accattivante e ammiccante per calamitare l'attenzione dei cittadini. Vorrei che il visitatore-fruitore non si tramutasse in customer, consumatore, cliente, acquirente. Vorrei che non fossimo ridotti a target da raggiungere e indirizzare verso questo o quel museo come in un'indagine di mercato per il lancio di un nuovo prodotto che soddisfi le esigenze di tutti (il papà al museo della Juventus, la mamma a Palazzo Madama, il piccolo al museo Egizio e il giovane alla GAM).
Non vorrei uno speed-date con l'arte, perché non sono un consumatore effimero che necessita di gratificazioni istantanee e non sono impaziente di accedere al sapere come davanti a un distributore di snack. Non vorrei sentir parlare di “consumi culturali”, di “strategia social”, di “brand reputation”, di “posizionamento strategico”, di “conquista del pubblico”, di “mission, leadership, vision, asset, governance, performance, user-experience e audience development” - almeno non in questo ambito, per favore.
Non ho sempre bisogno di “partecipare”, di dire cosa penso e pretendere di essere anche ascoltato e soddisfatto: a volte preferisco affidarmi a chi è – si suppone - più competente, in grado di conquistarmi intorno a qualcosa che non conosco. Delego uno specialista, in questo caso il curatore di una mostra o il direttore artistico di un museo, in altri casi il medico o l'idraulico, senza pretendere di imporre la mia voce anche quando non è competente né autorevole in materia. Poi certo, sono libero di ammirare e convenire oppure di dissentire e rilevare cosa non mi è piaciuto, e lo farò con la mia propria sensibilità o spirito critico, generando magari una dialettica interessante, ma non avrò necessità né urgenza di sentirmi sempre connesso, partecipe, cinguettante.
Ecco perché vorrei che i musei (con il loro contorno di esposizioni temporanee, festival e rassegne) fungessero da roccaforte contro il dilagante impoverimento culturale, invece di adeguarvisi. Non credo che sia l'arte a dover “andare incontro ai cittadini nel loro quotidiano”, bensì il contrario: i cittadini dovrebbero andare verso l'arte nel loro quotidiano. Insomma: non è il museo a doversi migliorare per avvicinarsi al pubblico, ma è il pubblico che deve migliorarsi per avvicinarsi al museo.
E affinché questo avvenga, sarà necessario un lavoro alle fondamenta, non agli stucchi – penso alla famiglia e alla scuola, e solo alla fine del processo ai musei, che raccolgono un'eredità e un patrimonio, ma da soli non sono in grado di costruirli.
L'unico tentativo che vedo possibile da parte delle nostre istituzioni e fondazioni culturali è una sinergia di tre componenti: il lavoro con le scuole, il dialogo con i privati e l'accessibilità della proposta culturale. Per accessibilità intendo la gratuità di questo accesso, che livellerebbe (come succede in molti altri paesi europei) le possibilità di fruizione, senza distinzioni. Se poi ugualmente questi luoghi del sapere rimangono scarsamente frequentati, si deve constatare che l'esperimento non ha funzionato e ricercare le cause di questo insuccesso altrove. Temo che l'accessibilità scambiata per semplificazione comporti un impoverimento dei contenuti, forse irreversibile.
Come mai a Torino iniziative quali la “Notte dei Musei” sono così seguite da formare code da Musei Vaticani? Non possiamo utilizzare questo parametro per giudicare le performance museali, invece di monitorare il flusso di autoscatti e cinguettii per confrontarci con gli altri paesi? Davvero dobbiamo puntare sempre al ribasso, fingendo di credere che i social siano “le nuove piazze del sapere”?
Se il nostro patrimonio culturale ha costituito negli ultimi anni un vettore economico e umano di crescita, delineando il “paradigma torinese di sviluppo”, ebbene io credo che quest'eredità andrebbe custodita, valorizzata, amata e appunto, coltivata, come dal seme al frutto - se siamo ancora in tempo per smentire la profezia di Andy Warhol, secondo il quale “in futuro tutti i grandi magazzini diventeranno musei e tutti i musei diventeranno grandi magazzini”.
ambra zambernardi
Nasce a Torino, dove nel 2011 si laurea con lode in Antropologia culturale ed etnologia, con una tesi di campo sui profughi di guerra iracheni in Giordania, a seguito dell'ultima guerra del Golfo. Le sue attività di ricerca e scrittura riguardano principalmente i temi della migrazione forzata e della dislocazione in Medioriente (Iraq, Palestina, Giordania, Israele) e ha collaborato con gli uffici culturale, politico e della cooperazione allo sviluppo dell'Ambasciata italiana ad Amman, su concorso del Ministero degli Esteri. In Italia è ricercatore indipendente, per la rete SusaCulture Project e per la Fondazione Medicina a Misura di Donna.
Sta scrivendo e intende sviluppare con un Dottorato presso l'Institut d'Ethnologie Méditerranéenne, Européenne et Comparative - Maison Méditerranéenne de Sciences de l'Homme (Aix-en-Provence), un ampio progetto etnografico (a carattere multimediale e multisensoriale) riguardante il patrimonio culturale immateriale (orale, rituale, gestuale) di due tipi di pesca nel bacino del Mediterraneo, oggi in estinzione.
Priva di affiliazioni accademiche, è membro ordinario dell'International Union of Anthropological and Ethnological Sciences e partecipa a convegni scientifici, pubblicando i suoi interventi in collettanea.
A queste, accompagna da anni esperienze freelance in ambito audiovisivo: ha lavorato come ricercatrice, assistente alla regia e alla produzione, operatore, montatore, fonico e curatore delle immagini per alcune case di produzione, fondazioni e con autori indipendenti in Italia e all'estero (Regno Unito, Russia, Turchia, Kuwait). Realizza documentari, video istituzionali, cortometraggi, videoclip, interviste, backstage per film, mostre e concerti, partecipando ad alcuni festival in Italia. Ha lavorato inoltre alla produzione di grandi eventi, tra cui i Giochi Olimpici invernali ed estivi e il GP di Formula 1 di Montecarlo; a Torino collabora da alcuni anni con Magnum Photos in occasione delle retrospettive dedicate ai suoi fotografi.
Dal 2012 cura, in collaborazione con Associazione Museo Nazionale del Cinema, una rassegna sul cinema europeo a Torino ed è stata membro di giuria per il festival Cinemambiente. Sempre a Torino, nel 2013 ha co-ideato con numerose altre realtà la rassegna “1973-2013: Cile, 40 anni dopo e oltre” per ricordare il quarantesimo anniversario del golpe cileno e l'evento “Nocturno Bolaño – Salone OFF”, dedicato all'omonimo scrittore.
Nel 2014 ha preso parte come danzatrice alla residenza coreografica “Ricerca x1 pubblico” presso le Officine Caos-Stalker Teatro e alla Carovana italiana per i diritti dei migranti presso il Sermig con l'estratto “Storie di sabbia e carbone” per la compagnia Ellissi Parallele. E' membro fondatore del gruppo di teatro-danza QuattroQuarti con cui ha scritto e portato in scena “Mas nada – Più niente” (2013) e “Amuleto” (2014), entrambi sul polimorfismo delle dittature; è membro associato della compagnia di danza Grimaco movimentiumani, per cui è danzatrice in “Corpocentrico” (2014), lavoro che indaga le trasformazioni del corpo. Dal 2013 è inoltre membro associato della factory creativa LungoTavolo45, presso cui lavora come performer con il gruppo QuattroQuarti. Nel 2015 sarà nel corpo di ballo del Teatro Regio nell'opera Faust, diretta da G. Noseda per la regia di S. Poda.
Le sue esperienze artistiche e performative hanno riguardato, oltre alla danza, un'esposizione internazionale di fotografia sul tema del conflitto (ICON, Cagliari) e la realizzazione di pitture murali collettive permanenti in Piemonte, sotto la guida del cileno Eduardo “Mono” Carrasco.
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